Mentre nel Belpaese cerchiamo di fare i conti con la realtà del bilancio non supportato da dati economici brillantissimi, in Europa, Mario Draghi, che pure ha firmato un paio di leggi di bilancio in questo Paese, ha proposto all’Unione europea un Rapporto sulla Competitività con una ricetta che prevede una spesa pubblica collettiva che a confronto il Piano Marshall sembra una mancetta.
Il miglior articolo che si possa leggere sino ad oggi sul Rapporto Draghi, è stato pubblicato su Non mollare n.156, Quindicinale post azionista, pubblicato dalla Fondazione Critica Liberale.
Per ogni liberale che si rispetti, e per ogni lettore che voglia farsi una propria idea e con spirito critico metodologico voglia costruirsi un’opinione sull’argomento, è una lettura che offre un’analisi approfondita, presentata da Giovanni Vetritto e Sergio Vasarri. Si invita caldamente la lettura del loro articolo, perché consente di comprendere appieno il metodo liberale delle analisi delle idee, e offre la possibilità di leggere oltre gli applausi mainstream che si possono incontrare un po' ovunque.
Ma perché il rapporto Draghi, non fa fare salti di giubilo a liberali e liberisti prima di tutto e ad ogni persona dotata di buon senso che voglia bene a figli nipoti e pronipoti che vorrebbe alleviare da quell’ignobile fardello che si chiama debito pubblico?
L’ipotesi paventata da Draghi è quella di una spesa di circa 800 miliardi di euro all’anno, finanziata con debito (vale il doppio del piano Marshall). Egli si mostra ancora una volta allievo dei suoi maestri, primo tra tutti Federico Caffè, incapace di pensare che il mercato possa procedere con la propria forza ed energia, e convinto assertore di un’ottica top-down, figlia di una prospettiva novecentesca, che non considera tutta la letteratura sullo sviluppo locale che nel frattempo è stata prodotta, che suggerisce l’implementazione di politiche economiche place based, tenendo conto della necessità di articolare interventi multilevel, proprio dato il contesto europeo in cui tali politiche andrebbero ad impattare.
Vi sono due aspetti di forte criticità per questa visione miope intrinseca nel rapporto:
1) Anche se non andasse a buon fine, l’estensore in quanto soggetto non politico, non sarebbe sottoposto o sottoponibile al giudizio – politico – degli elettori, e non sanzionabile quindi – politicamente – con il voto in caso di errore o fallimento. Egli non avrebbe alcuna responsabilità, non sentirebbe la necessità ineludibile invece per un politico che ambisce ad essere rieletto, di adottare misure efficaci per raggiungere gli obiettivi che ha scelto di realizzare, come un generale che delineasse una strategia ma poi si ritirasse in campagna, lasciando l’esercito ad altri;
2) Stante l’enorme debito pubblico, e le spinte inflazionistiche appena sopite in Europa, il rapporto sembra essere del tutto indifferente a quello che l’intervento pubblico può provocare a livello di disequilibrio macroeconomico.
Questo ultimo elemento diventa ancora più grave in questo ottobre in cui si celebrano i 50 anni dell’assegnazione del premio Nobel per l’economia a Friedrich August von Hayek, conferitogli per: “Il lavoro sulla teoria monetaria, sulle fluttuazioni economiche e per le analisi sull’interdipendenza dei fenomeni economici”, e che come ben sappiamo mise in discussione le tesi di Keynes, ispiratore invece proprio di quel Federico Caffè, che fu uno dei principali diffusori della dottrina keynesiana in Italia, e maestro, per l’appunto del nostro ex presidente del Consiglio dei ministri.
Insomma, Hayek è vivo e lotta insieme a noi.
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Aggiornato il 18 ottobre 2024 alle ore 14:39