In un periodo storico in cui non si fa altro che confondere, volente o nolente, la locuzione di libero mercato – altresì definito con il termine lessicalmente sarcastico “liberismo” o “iperliberismo” – con il significato di monopolio finanziario, diviene sempre più attuale la lezione del più illustre e sagace esponente rappresentante del vero liberalismo italiano, nonché primo presidente della Repubblica italiana Luigi Einaudi, eletto dopo il nominato dall’Assemblea costituente Enrico De Nicola. La visione lungimirante della società economica italiana di Einaudi non si è mai basata sulla declinazione senza regole della libertà economica e dell’iniziativa privata, ma semplicemente sulla difesa della società da ogni forma di ideologia che portasse al collettivismo di qualsiasi genere, di matrice marxista o semplicemente di matrice speculativo-finanziaria o altro ancora.
Il principio fondante dell’unico e vero liberalismo, e quindi anche del pensiero di Luigi Einaudi, non può essere che la tutela della libertà economica, la quale in modo sostanziale si declina nell’irriducibile e irrefutabile salvaguardia della proprietà privata, come conditio sine qua non per consentire la piena espressione e realizzazione dell’individuo e della sua personalità, nel concretizzare le proprie legittime aspirazioni, sempre nel rispetto della legalità, a sua volta difesa e regolamentata, nonché controllata dallo Stato. Invero, Einaudi, durante i lavori dell’Assemblea costituente, esprimeva preoccupazione riguardo all’ambiguità di concetti come “utilità sociale” e “fini sociali”, presenti nel secondo e terzo comma dell’Articolo 41 della Costituzione. La sua paura era che potessero essere interpretati secondo orientamenti politici dirigistici.
Pertanto, Einaudi sosteneva che lo Stato non dovrebbe diventare imprenditore, in quanto i politici non possiedono la “capacità inventiva economica” del privato, che investe i propri rischi, mentre i politici investono il denaro pubblico. Egli delineava una netta distinzione tra il ruolo della politica e quello degli imprenditori privati, con la prima incaricata di creare le regole, mentre i secondi dovevano operare e sviluppare la società. Invero, l’ex presidente ed economista italiano rifiutava l’immagine stereotipata dei liberali come fautori del laissez-faire, e sosteneva che lo Stato dovesse intervenire per garantire la libertà economica, limitando sia il monopolio privato che il collettivismo statale, entrambi perniciosi per la libertà.
Al postutto, il suo “scetticismo invincibile” lo portava a sostenere una concezione dinamica della libertà, basata su un continuo confronto e sperimentazione. Nello specifico, Einaudi osteggiava ogni ideologia che pretendesse di possedere la “verità assoluta”, considerandola una minaccia alla libertà individuale e collettiva.
“Garantire la persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza dei privati”.
Aggiornato il 09 settembre 2024 alle ore 11:54