E se si abolisse il sostituto d’imposta?

La riforma fiscale in cantiere potrebbe fare un passo avanti che migliorerebbe la trasparenza e l’integrità del sistema fiscale

Non è una proposta nuova, quella di abolire il sostituto d’imposta. È stata infatti già avanzata in molti contesti, e anche in sede politica – addirittura dall’esponente del Partito democratico Pierluigi Bersani – e in quella sindacale, dal segretario generale della Uil, Pierpaolo Bombardieri, il quale ha annunciato di voler chiedere “di abolire il sostituto d’imposta: diamo tutti i soldi presenti in busta paga, lordi e netti, e garantiamo a lavoratori dipendenti e pensionati la possibilità di pagare, se si trovano in difficoltà, con un’autocertificazione nel corso dei prossimi dieci anni”. In Parlamento, tra le tante iniziative finalizzate al medesimo obiettivo si possono segnalare alcuni progetti di legge, come quello d’iniziativa dei deputati della Lega Massimo Bitonci e altri, presentato alla Camera il 16 novembre 2022. O quello di Tommaso Foti del Popolo delle libertà e di Elisabetta Zamparutti e altri dei radicali italiani, entrambi presentati alla Camera il 29 aprile 2008, e il disegno di legge dei senatori della Margherita Natale D’Amico e altri, presentato a Palazzo Madama il 16 maggio 2002.

In precedenza, per ben due volte, nel 1994 e nel 1999, i radicali avevano promosso con successo la raccolta delle firme necessarie all'indizione di un referendum abrogativo popolare sullo stesso tema. In entrambi i casi, tuttavia, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito, impedendo alla volontà popolare di esprimersi attraverso lo strumento di democrazia diretta previsto dall’articolo 75 della Costituzione. Il sostituto d’imposta, come riporta la manualistica, è il soggetto obbligato al pagamento di imposte per una capacità contributiva realizzata da altri. Tra gli esempi più comuni si ricordano le imprese e le agenzie di credito che sono tenute a eseguire le ritenute fiscali sui compensi pagati ai dipendenti o sugli interessi corrisposti ai correntisti, i committenti di lavoratori autonomi, i condomini, ecc. È una figura peculiare del diritto tributario, eminentemente strumentale in quanto tende a rendere immediati l’accertamento e la riscossione dei tributi da parte dell’erario. Il suo ambito è tuttavia più vasto rispetto alla nozione di sostituzione tributaria che si desume dal tenore dell’articolo 64, 1° comma, del decreto del presidente della Repubblica del 29 settembre 1973 numero 600.

In esso infatti si ricomprendono quelle ipotesi di ritenuta di acconto che non costituiscono il prelievo definitivo di una quota del tributo, bensì rappresentano l’anticipazione del pagamento non definitivo del tributo stesso che in un secondo momento sarà liquidato nuovamente, con l’eventuale restituzione dell’eccedenza al sostituito. Tale sistema è un chiaro esempio di servitù involontaria, atteso che: “Come sosteneva anni fa l’intrepida industriale del Connecticut Vivien Kellems – ha ricordato Murray Rothbard – il datore di lavoro è costretto a spendere tempo, lavoro e denaro per dedurre e trasmettere le imposte dei suoi dipendenti allo Stato, ma non viene ricompensato per questa dispendiosa attività”. È inoltre uno dei perni su cui poggia l’intero sistema fiscale statale.

Esso, in origine, è stato utilizzato come una misura d’emergenza, varata dai governi nei periodi di guerra, per poter riscuotere immediatamente e anticipatamente le tasse e disporre in tal modo di maggiori entrate per sostenere gli sforzi bellici. È quanto si è verificato, ad esempio, negli Stati Uniti ove, dopo le brevi esperienze del 1862 e della legislazione fiscale del 1913 – in vigore sino al 1917 – nel periodo della Seconda Guerra mondiale, per effetto del particolare clima creato dalla stessa e del vertiginoso aumento delle esigenze finanziarie del Governo Usa, è stato impiantato (non senza contrasti e discussioni) il sistema della ritenuta alla fonte. Ciò sulla base del piano elaborato nel 1942 da Beardsley Ruml – all’epoca dirigente della Rh Macy & Co. e direttore della New York Federal reserve bank – e della successiva approvazione da parte del Congresso con la legge fiscale del 9 giugno 1943. Negli Usa, il nuovo sistema così instaurato ha prodotto in pochi anni i suoi frutti sia come numero di trattenute operate che, soprattutto, come gettito fiscale riscosso dal governo americano. In ciò, anche favorito da una limitata forma di “condono fiscale”, emanato dopo numerose proteste e alla fine di un lungo dibattito che ha anche interessato l’amministrazione e il Congresso, per consentire la transizione dal precedente al nuovo sistema evitando di far pagare ai contribuenti, in un solo anno e anticipatamente, le tasse di due anni.

Finita la guerra, siffatto sistema non solo non è stato abolito, quanto è addirittura diventato l’architrave dei regimi fiscali di altri Paesi, in ossequio, del resto, all’osservazione di Adam Smith: “Non esiste arte che uno Stato apprenda più in fretta da un altro Stato che non sia quella di prosciugare il denaro dalle tasche del popolo”. Ben presto, infatti, i governi hanno compreso la portata della riforma ovverosia che, attraverso il sostituto d’imposta, avrebbero potuto riscuotere i tributi in modo facile, sicuro e in anticipo, prelevandoli direttamente alla fonte, e conseguire nello stesso tempo l’ulteriore risultato di renderlo impercettibile agli interessati, sostituiti i gravosi oneri fiscali a loro carico e ogni ulteriore aumento delle tasse. All’opinione pubblica, il nuovo impianto è stato invece pubblicizzato sia come semplificativo dei rapporti fiscali che del tutto benefico per i contribuenti. A questi ultimi, infatti, è stato propagandato come il metodo più conveniente per il pagamento dei tributi e un modo per adempiere le obbligazioni fiscali comodamente e con un minimo disagio. Com’è evidente, le argomentazioni che sono state adoperate a sostegno del sistema del sostituto d’imposta hanno finito per rimodellare le opinioni della gente e distoglierla dal considerare che lo stesso è limitativo della libertà individuale e si risolve in una servitù involontaria a carico dei committenti, dei datori di lavoro. Essi, infatti, mediante siffatto sistema, sono coattivamente trasformati in esattori del fisco e a suo favore devono, peraltro gratuitamente, spendere tempo, fatica e denaro per dedurre e versare le ritenute operate sui compensi ai loro prestatori o dipendenti. Inoltre, proprio il meccanismo apprestato con il sostituto d’imposta, ha impedito e impedisce di percepire che, contrariamente a quanto si può pensare, le somme prelevate non sono una tassa a carico del sostituto bensì una parte del compenso del prestatore o del lavoratore dipendente ai quali, di conseguenza, impedisce di rendersi conto di quanto l’imposizione fiscale incida sulla loro busta paga e sui loro redditi.

In sostanza, il sistema del sostituto d’imposta da misura emergenziale, pure limitata a un breve periodo di tempo, si è trasformato nel più potente strumento di prelievo fiscale, che riduce oltremodo la trasparenza sull’imposizione e rende anche più facile aumentare le tasse. È una sorta di gigantesca slot machine erariale la quale, come rilevato da Charlotte Twight: “Consente al governo di raccogliere, senza proteste significative, sufficienti risorse private per finanziare un welfare state notevolmente ampliato”. La sua abolizione appare senz’altro necessaria e non più procrastinabile.

Aggiornato il 05 agosto 2024 alle ore 12:41