Protezionismo economico: no, grazie!

A proposito degli effetti dei dazi compensativi dell’Unione europea sui veicoli elettrici cinesi

La decisione della Commissione Ue di imporre dazi ben al di sopra di quelli già in vigore sulle importazioni di auto elettriche cinesi, che entreranno in vigore il 4 luglio 2024 e porteranno a un aumento, a seconda dei casi, tra il 17,4 e il 38,1 per cento delle attuali tariffe al 10 per cento, induce a soffermarsi sul protezionismo economico. Si tratta invero di una pratica ormai datata, che oppone pretese meramente politiche e preindustriali ai dettami consolidati della scienza economica e, nonostante ciò, continua a esercitare un certo fascino. È infatti presente da secoli, tant’è che le argomentazioni più recenti, quelle della concorrenza sleale, altro non rappresentano che una variazione della vecchia tesi secondo cui il protezionismo salva le industrie nazionali dalla minaccia della concorrenza straniera, salvaguarda i posti di lavoro locali e rafforza l’economia interna.

Senonché, come è già successo in passato e contrariamente a quanto ora dichiarato dell’Unione proponente, le misure protezionistiche sono destinate a non raggiungere alcuno degli obiettivi che i loro fautori intendono perseguire e finiranno per distorcere l’economia a scapito delle aziende produttive e soprattutto dei consumatori.

Il protezionismo, infatti, ostacola la competizione di mercato e quindi il dispiegarsi della funzione imprenditoriale, la quale coincide con l’azione umana ed è propria di qualsiasi persona che si attiva per modificare il presente e conseguire i suoi obiettivi nel futuro. È questa una definizione che corrisponde ad una concezione dell’imprenditorialità sempre più elaborata e studiata dalla scienza economica ed è, inoltre, perfettamente adagiata sul significato etimologico originale del termine impresa (dal latino in prehendo che significa scoprire, vedere, percepire, rendersi conto di, afferrare). L’attività esercitata dall’imprenditore consiste pertanto nello scoprire e valutare le opportunità che si presentano nell’ambiente circostante per conseguire un fine o, se si preferisce, per ottenere un profitto o un beneficio. L’imprenditore è il protagonista dell’economia di mercato, è colui che coglie le opportunità che altri avevano trascurato e rende possibile la definizione di nuove produzioni, e consegue un profitto, che è la misura del successo delle sue iniziative e della scoperta imprenditoriale, che è creatrice di reddito per la collettività.

Ostacolare la competizione, la quale – ha sottolineato Friedrich A. von Hayek ‒ porta: “All’uso di maggiori capacità e conoscenze di qualsiasi altra procedura” ed è l’altra faccia dell’imprenditorialità, significa pregiudicare la possibilità per gli imprenditori di individuare bisogni insoddisfatti, di scoprire soluzioni nuove e di colmare situazioni di disequilibrio, cogliere opportunità che altri avevano trascurato e rendere possibile la definizione di nuove produzioni.

Tutto ciò a vantaggio dei gruppi privilegiati dal potere politico, che stabilisce così tra vincitori e vinti, e di produttori e aziende meno efficienti, che non riescono a farcela in un mondo libero e in un mercato senza ostacoli e soffrono la concorrenza di industrie e aziende efficienti, cui vengono sottratti gli incentivi per migliorare la qualità dei prodotti e dei servizi e ridurre i costi.

I provvedimenti protezionistici – ha scritto Ludwig von Mises – hanno l’effetto di spostare la produzione dai luoghi in cui le condizioni naturali sono più favorevoli a quelli dove sono meno favorevoli. Essi proteggono l’uomo meno efficiente contro il rivale più efficiente. Tendono a perpetuare modi di produzione tecnologicamente arretrati. In breve, riducono la produzione e così abbassano il tenore di vita”.

Nel mercato, del resto, nessuna azienda è “padrona” dei propri clienti, ma deve attivarsi continuamente in un’opera di conquista e riconquista quotidiana, obbedendo rigorosamente agli ordini del pubblico dei consumatori. E deve misurarsi con le incerte condizioni del futuro, cercando di anticipare meglio degli altri e correttamente gli eventi a venire e la domanda dei consumatori. Sono poi questi ultimi che, tramite i loro acquisti, valorizzano il risultato raggiunto dagli imprenditori, permettendo ad alcuni di ottenere un beneficio e ad altri di subire delle perdite.

A parte ciò, il protezionismo, come già accennato, danneggia i consumatori, i quali non chiedono ai loro fornitori una professione di fede o di dichiarare la propria nazionalità: domandano semplicemente beni e servizi in grado di soddisfare al meglio e nella maniera più conveniente i loro bisogni.

Il che equivale a dire che lo scambio libero e volontario, non condizionato, amplia le loro possibilità di scelta nel mercato. Allorché sono invece imposti dazi e tariffe, il consumatore, specialmente se dispone di un reddito basso o medio, è costretto a pagare di più per beni che altrimenti potrebbe acquistare a un prezzo inferiore, oltre a doversi accontentare di prodotti di minore qualità, pure scegliendo quelli nazionali.

È inoltre pregiudicato nella possibilità di risparmio o investimento, dovendo impiegare maggiori risorse per la medesima quantità di beni acquistati in precedenza. Aggiungasi poi che quand’anche scelga di risparmiare denaro e acquistare meno prodotto perde comunque una quota della sua ricchezza perché deve accontentarsi di una seconda scelta quando ciò che realmente avrebbe voluto era il bene importato. 

Le politiche protezionistiche danneggiano infine i poveri, i quali, proprio per effetto delle relative misure, sopportano, in proporzione al loro reddito, costi e spese maggiori rispetto agli individui più agiati e si trovano quindi a disporre di minori risorse per soddisfare altri bisogni primari, come alimentazione, trasporto e affitti.

In conclusione, è necessario guardare con sfavore le politiche protezionistiche e diffidare dagli stregoni che le invocano e sostengono, non perdendo mai di vista che una società libera con un’economia dinamica è basata sulla “democrazia” del mercato, che oggi è planetario, nel quale consumatori e aziende sono liberi di scambiare prodotti e servizi. Pertanto, ogni azione di mercato è un referendum sul valore di ciascuna azienda o settore. Non esiste un effetto top-down, ma pura spontaneità costruita su azioni volontarie. Tuttavia, i consumatori possono cambiare idea su qualsiasi attività specifica in qualsiasi momento. Le ragioni sono diverse: potrebbe esserci un prodotto più all’avanguardia offerto altrove. I consumatori possono percepire la qualità come più elevata rispetto alla concorrenza. I nuovi imprenditori potrebbero essere in grado di offrire prezzi più bassi. Alcune aziende potrebbero rispondere a queste sfide con nuove innovazioni. È il mercato, e il suo funzionamento assicura la migliore allocazione delle risorse e la più elevata forma di cooperazione sociale tra coloro che vi prendono parte, che è uno scambio a somma positiva, avvantaggia cioè tutti i partecipanti.

In  merito a tutto ciò, torna alla mente quanto hanno scritto Milton e Rose Friedman, per i quali: “Sin dai tempi di Adam Smith vi è stata una sostanziale unanimità tra gli economisti (…) sul fatto che la libertà nel commercio internazionale fa gli interessi dei Paesi che commerciano e del mondo intero”, e soprattutto Murray N. Rothbard, secondo cui: “Il protezionismo non è solo un’assurdità, ma un’assurdità pericolosa, distruttiva di ogni prosperità economica”, ha scritto. Non siamo, se mai lo fossimo, un mondo di agricoltori autosufficienti. L’economia di mercato è un vasto reticolo che attraversa tutto il mondo, in cui ogni individuo, ogni regione, ogni paese, produce ciò in cui è migliore, in cui è più relativamente efficiente, e scambia quel prodotto con i beni e servizi di altri paesi. Senza la divisione di lavoro e il commercio basato su tale divisione, il mondo intero morirebbe di fame. Le restrizioni coercitive al commercio – come il protezionismo – paralizzano, ostacolano e distruggono il commercio, fonte di vita e prosperità. Il protezionismo è semplicemente un appello a danneggiare i consumatori, così come la prosperità generale, un modo per conferire privilegi speciali permanenti a gruppi di produttori meno efficienti, a scapito delle aziende più efficienti e dei consumatori. Ma si tratta un tipo di salvataggio particolarmente distruttivo, perché incatena permanentemente il commercio sotto il manto del patriottismo”.

Aggiornato il 21 giugno 2024 alle ore 11:58