Il Paese cresce, ma il gap con il Sud rimane

Condivido pienamente quanto ribadito pochi giorni fa dal direttore Roberto Napoletano sulla necessità di spegnere la vivace attività dei gufi, la vivace attività di chi, volutamente, non vuole ammettere che, proprio negli anni più critici, il Paese è cresciuto e lo stesso Napoletano precisa: “La realtà, quella vera, spudoratamente ignorata da tutti, è che l’economia italiana ha messo in cascina una crescita del Pil di ben oltre il 12 per cento in tre anni più difficili della storia contemporanea del Paese”. Il merito di tale crescita senza dubbio è anche da riconoscere alla credibilità di Mario Draghi ma, a mio avviso, soprattutto, alla qualità e all’eccellenza del nostro sistema imprenditoriale. Un sistema che è cresciuto proprio perché in grado di reagire in modo compatto alle avversità; in fondo il nostro sistema imprenditoriale si è rivelato all’interno dell’Unione europea il più resiliente.

Ma dopo questo riconoscimento e questa ammissione dei risultati positivi dell’economia, penso sia opportuno avere il coraggio di effettuare un focus sulla solita realtà del Paese che stranamente non cresce o meglio cresce senza mai ridimensionare il suo gap con il resto del Paese. Contestualmente, infatti, alla relazione del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è apparso un dettagliato approfondimento sempre della Banca d’Italia sul Mezzogiorno da cui si evince che il Mezzogiorno senza dubbio è cresciuto, ma la differenza con il resto del Paese è praticamente è rimasta quasi identica: il Pil risulta ancora 10 punti sotto i livelli osservati prima della crisi del 2008-2009; il Nord ha superato, addirittura, i valori del 2007. Se si utilizza come parametro il Pil pro capite del Sud il calo nei confronti del Centro-Nord, rispetto al 2007, resta del 6,4 per cento. Allora, senza voler fare una tipica analisi da “deluso meridionalista”, ritengo sia utile, proprio all’inizio di una Legislatura in cui ci sono tutte le condizioni di una piena stabilità, dare vita a una serie di interrogativi critici.

A cosa è servito imporre per legge l’obbligo di assegnare al Sud almeno il 30 per cento delle risorse globalmente assegnate dallo Stato per interventi in conto capitale; che senso ha aver inserito per quarant’anni, in varie norme, in particolare circa in 21 leggi, un simile obbligo. Ho effettuato una capillare verifica del rispetto in quarant’anni di tali norme ed è emerso che, cosa tra l’altro riconosciuta dallo Svimez, la soglia reale, almeno per gli investimenti in infrastrutture, non ha mai superato la soglia del 12-13 per cento.

Che senso ha istituire un dicastero, quello del Sud e della Coesione territoriale, cioè che senso ha illudere l’intero Mezzogiorno di una volontà istituzionale mirata a eleggere la crisi del Sud a tematica base per la politica del Governo. In proposito, mi chiedo solo a titolo di esempio, cosa hanno prodotto i ministri della passata Legislatura come Barbara Lezzi, come Giuseppe Provenzano e Mara Carfagna. Un’analisi attenta sull’operato dei tre ex ministri porterebbe a una conclusione: solo immagine. Sì, una immagine mirata solo a dimostrare di “esistere”. Ad esempio l’ex ministro Provenzano aveva prodotto un Piano per il Sud, Lezzi si era impegnata a garantire la spesa delle risorse del Fondo di sviluppo e coesione e Carfagna aveva effettuato tanti convegni tra cui uno alla presenza di Draghi e del presidente Sergio Mattarella a Sorrento. Ma tutto questo ha prodotto solo, nel migliore dei casi, conoscenza del fenomeno Mezzogiorno; ma noi del Sud non avevamo e non abbiamo bisogno di conoscere una realtà da sempre in crisi.

Come mai le otto Regioni del Sud, unite tutte e otto da un comune denominatore, quello di essere all’interno dell’Obiettivo uno, cioè tutte caratterizzate da un Pil pro capite inferiore al 75 per cento della media comunitaria, non abbiano sentito l’esigenza di costruire insieme una piattaforma rivendicativa unitaria attraverso la quale chiedere non una percentuale teorica degli investimenti dello Stato, ma l’apertura di un capitolo di spesa, gestito da un organismo super partes come ad esempio la Banca europea degli investimenti (Bei) o come l’ex Cassa del Mezzogiorno.

Per quale motivo dopo il fallimento nell’utilizzo delle risorse del Fondo di sviluppo e coesione 2014-2020 non si sia deciso di rivedere integralmente la logica con cui sono definiti i Programmi operativi regionali (Por) e i Programmi operativi nazionali (Pon); cioè che senso ha affrontare in modo distinto scelte programmatiche che dovrebbero perseguire le stesse finalità, ma che in realtà producono solo un’assurda contrapposizione tra organo centrale e organo locale. In fondo, riproducono sistematicamente la “classica guerra tra poveri”.

Perché non si affronta in modo autonomo l’offerta logistica del Sud, sia portuale che interportuale. Perché non si affronta una tematica che per motivi geografici è in partenza svantaggiata da sempre. Chiediamoci perché nel Sud esiste solo un porto, quello di Gioia Tauro, ed un interporto, quello di Nola-Marcianise. Sono sicuro che immediatamente si scateneranno tutti i presidenti dei sistemi portuali del Sud dichiarando che non è facile gestire realtà portuali senza disporre di autonomia finanziaria e con investimenti pubblici, nel migliore dei casi, legati solo alla manutenzione delle strutture dell’impianto portuale. Cioè giustamente con simili precisazioni confermeranno che la logistica nel Sud non ha subito nessun cambiamento strategico. Un ultimo tema che non riusciamo a capire e ad affrontare e che invece è stato da sempre affrontato in modo organico nelle altre realtà in crisi dell’Unione europea, cioè negli altri “Mezzogiorni d’Europa”, è il “credito agevolato”; negli altri Paesi esiste un misurabile supporto alle iniziative produttive. Come mai nel nostro Sud, se esiste, insisto se esiste, è praticamente poco accessibile.

Mi fermo qui perché siccome questa analisi la effettuiamo da sempre, siccome questa narrazione è scomoda e, addirittura impopolare, oramai non viene neppure letta. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, viene ritenuta marginale. Eppure pensate non affrontando responsabilmente quei sei punti continuiamo a mantenere vivo un vero scandalo: il Sud potrebbe partecipare nella formazione del Pil per circa il 30 per cento, invece non supera il 21 per cento, cioè annualmente il Sud perde oltre 190 miliardi di euro. E a questo scandalo si risponde assicurando solo un impegno “percentuale”, un impegno, tra l’altro, mai mantenuto.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole

Aggiornato il 12 luglio 2023 alle ore 13:21