Una tassa inopportuna

Ormai, oltre a Il Fatto e altri organi di stampa della tradizione feudale, La Repubblica e il neonato Domani sono diventati un’inesauribile miniera di leninismo da osteria. Leggo sull’ultimo Venerdì di Repubblica, a pagina 38, una tale articolessa dal titolo “Botteghe storiche, i conti non tornano”.

L’inizio è folgorante: “… Se gli ipermercati sono i principali responsabili dello spopolamento dei centri storici”. (In realtà, il primo responsabile è il turismo di massa, che trasforma gli appartamenti del centro in ricca fonte di reddito da b&b, alzando i prezzi per affitti e vendite per i residenti). L’articolo prosegue, precisando che l’idea di un assessore – al Commercio – torinese è questa: “… Perché non tassarli (i supermercati) e dare il ricavato alle botteghe del centro?”.

L’idea è già un disegno di legge presentato al Senato. Il presidente dell’Associazione Botteghe Romane trova che l’iniziativa torinese sia “giusta”. Lo stesso aggiunge: “… Credo serva un contributo da parte di chi, negli anni, ha drenato risorse, come i grandi centri commerciali e chi vende su internet, attività che desertificano le strade e non lasciano nulla sul territorio”.

Io eccepisco: dal punto di vista della logica, queste iniziative rivelano una matrice feudale della cultura politica, là dove il libero mercato diventa proprietà non “pubblica” ma delle culture retrò dei partiti. I signori di Torino e Roma non rilevano, infatti, che i supermercati hanno i prezzi più bassi per i cittadini. Più hai la capacità di acquistare grandi quantità di merci in un tempo duraturo, più hai margini per utilizzare la legge del libero mercato, che impone “il prodotto migliore al prezzo migliore”, come unica regola. Certamente, ciò ha danneggiato alcuni tipi di botteghe (non i panifici, ad esempio, e neanche librerie o pasticcerie), ma questo cambiamento ha prodotto risultati positivi. Altrimenti dovremmo continuare a tener il bigliettaio sul bus, invece di usare strumenti di controllo efficaci e alternativi, che costano meno alle aziende e quindi agli utenti.

Infatti, se si tassano i supermercati, levando parte del loro reddito per donarlo alle botteghe storiche o di prossimità, si dimentica che niente è regalato. E che quindi la nuova tassa verrà scaricata sul prezzo della pasta e del riso che la gente compra all’Esselunga (si pensi che a Londra pasta e riso di qualità migliore di quella che si trova nei nostri migliori supermercati, italiana e artigianale, costano meno che in Italia!).

L’economia è matematica: se non lo sai, forse, dovresti dedicarti ad altro. Quindi, con la riproposizione continua di ragli d’asino, gli italiani rischiano di dover subire le menate e i costi di un’ennesima tassa (a); i supermercati scaricherebbero sui clienti i maggiori costi (b); le botteghe storiche non uscirebbero dallo stato di crisi (c). Perché non è con le donazioni a “babbo morto” che si fa una buona politica economica. E non è col denaro ottenuto in elemosina che si trova la via d’uscita migliore per riconvertire tutta la (utile, sia chiaro) funzione delle botteghe di prossimità. Ma certo, le botteghe devono adeguarsi ai nuovi contesti urbani, cambiare modalità, aggregarsi, creare un nuovo tipo di offerta. Tutto ciò senza dimenticare che l’economia legata alle merci essenziali si fa col Libero Mercato, e non con l’economia del Vaticano o dei neo-leninisti. La politica può e deve intervenire solo quando si creano monopoli, lobby partitiche, normative errate, o un rialzo dei prezzi immotivato e slegato da un aumento del costo delle materie prime.

Pensare a una tassa inflattiva che impatti sul prezzo dei cibi, nel momento in cui l’inflazione su quei prodotti è diventata il problema principale, sembrerebbe una politica pubblica che nemmeno un Cacasenno come il Jim Carrey del film Scemo e più scemo potrebbe immaginare. Speriamo che il Senato soffochi questa ennesima mossa illiberale che – ripeto – non gioverebbe a nessuno.

Aggiornato il 12 maggio 2023 alle ore 13:12