La crescente dimensione del debito pubblico dovuta alla crisi economica-finanziaria che incide sulla diminuzione delle entrate per la difficoltà in cui versano le imprese e sull’aumento della spesa per il maggiore impegno che si sta richiedendo allo Stato, al fine di ridurre le crescenti tensioni sociali, comporta la necessità di recuperare spazi di inefficienza nella spesa pubblica ma, contemporaneamente, induce a ipotesi di introduzione di ulteriori nuove imposte, come la patrimoniale proposta dal Partito Democratico, per diminuire i crescenti squilibri.
In realtà, la proposta può essere in sé legittima per le condizioni eccezionali in cui versa l’economia del Paese ma, al di là delle considerazioni che queste manovre potrebbero avere un effetto recessivo sulla possibile ripresa dell’economia, è necessario sottolineare che sarebbe fondamentalmente iniqua data l’alta opacità sia dal lato del prelievo (pagamenti delle imposte) sia dal lato dell’uso che viene fatto delle risorse raccolte da parte delle Pubbliche amministrazioni. Il problema è strettamente legato alla mancanza di una chiara e responsabile rendicontabilità da parte dei cittadini verso lo Stato per le somme versate e da parte dello Stato verso i cittadini per le modalità con cui quelle somme vengono destinate e usate. Alla base di questa reciproca diffidenza vi sono almeno due elementi centrali: il disallineamento tra Paese reale e quello istituzionale e l’insufficienza ormai cronica dei sistemi di controllo sia nelle realtà pubbliche che in quelle private. Il disallineamento tra Paese reale e quello istituzionale è determinato dal fatto che mentre lo Stato è fortemente differenziato nei suoi territori per storia, tradizione, cultura, risorse e competenze (essere stati governati dagli Asburgo o dai Borboni genera culture amministrative diverse), i modelli di governance sono legati alla logica dell’uniformità (patto di stabilità, vincolo di cassa, turn-over, indebitamento) che colpiscono allo stesso modo delle realtà profondamente diverse, con la conseguenza che le regole, dove possibile, vengono sistematicamente disattese. Ma, soprattutto, non sono mai chiare le aree di responsabilità e quindi vengono meno i principi basilari che ispirano i sistemi di controllo che, infatti, non funzionano.
I sistemi di controllo nel nostro Paese hanno da sempre avuto un approccio fortemente giuridico, nel senso che quando si rilevano problemi o aree di inadempimento si pensa che la soluzione sia fare nuove norme, inasprire quelle esistenti o creare nuovi organi di accertamento. Quest’approccio, che è legato a una sorta di “miraggio della razionalità”, ha portato a un contesto legislativo farraginoso, ripetitivo, fortemente analitico e scarsamente applicato nei fatti. Nelle Pubbliche amministrazioni – Comuni, Province, Regioni, Amministrazioni centrali, Università – vi sono almeno 6 o 7 organi di controllo: qualche opinionista, invece di domandarsi perché non funzionino, ne propone degli altri. Allo stesso modo, si ripropongono con testi in molte parti simili a leggi da anni presenti nel nostro ordinamento ma scarsamente applicate. Forse, qualche volta vale la pena domandarsi perché le leggi non siano applicate.
Queste carenze si riflettono in ampie aree di evasione fiscale, nella costituzione di zone produttive quasi franche, nella diffusione di comportamenti illeciti che impediscono il formarsi di un’imprenditorialità sana. Una tassa patrimoniale non potrebbe colpire il milione e trecentomila immobili non censiti, secondo attendibili stime, ma sarebbe profondamente iniqua per quelli che lo hanno fatto. La mancata applicazione di adeguati sistemi di controllo nelle Amministrazioni pubbliche che diano un’indicazione sulle modalità con cui vengono destinate, e spese, le risorse raccolte tramite le imposte, impedisce di capire il corretto uso delle stesse, perché l’unico controllo che viene fatto è se le somme stanziate per i vari programmi previsti in finanziaria siano spese (ma non in che modo). Pertanto, possiamo avere spese assolutamente legittime ma anche assolutamente inutili.
Gli indicatori che esprimono l’efficienza e l’utilità della spesa sono spesso di processo: il numero di leggi fatte rispetto a quelle da fare, il numero di riunioni svolte rispetto a quelle da avviare e così via. Per contro, non vi sono indicatori di risultato: chilometri di spiagge disinquinate, le licenze non controllate nei vari settori, i metri cubi edificati senza licenza. La conseguenza è la mancanza di una chiara rendicontabilità – principio di accountability – verso i cittadini. È per questo motivo che ulteriori sacrifici dovranno essere accompagnati da una crescente resa di conto tra amministratori e amministrati, perché questa possa diventare un valore condiviso da tutti. Infatti, se le persone pensano che il rispetto delle norme non sia solo un obbligo giuridico ma rappresenti la possibilità di rendere migliore la società in cui viviamo e che lasceremo ai nostri figli, vi sarà una reale e profonda condivisione delle regole che, a quel punto, potranno essere anche ridotte.
Pensare a nuove tasse senza mettere mano a un riordino dei sistemi di controllo e di rendicontabilità rischia di essere una manovra diseconomica, iniqua, di scarsa eticità e non rispettosa dei delicati equilibri sociali.
(*) Professore emerito - Università Bocconi
Aggiornato il 25 ottobre 2022 alle ore 09:56