“Affamare la bestia fiscale” per salvare le imprese

La Pubblica amministrazione nel suo complesso ha consolidato crediti fiscali nei confronti delle imprese, professionisti e famiglie per oltre 800 miliardi di euro. Nella parte più rilevante sono crediti inesigibili soprattutto nei confronti di società decotte o destinate al fallimento anche per motivi fiscali. La stessa gestione dei crediti inesigibili comportano spese di gestione che non trovano una giustificazione logica. Nella contabilità generale di qualsiasi impresa, i crediti devono essere distinti in: certi ed esigibili, incagliati e in contenzioso. I crediti certi ed esigibili sono quelli che presentano un elevato grado di affidabilità. Quelli incagliati si riferiscono a crediti che presentano criticità ma ancora c’è possibilità di recuperi anche parziali. I crediti in contenzioso sono ormai di difficile recupero.

La distinzione dei crediti risponde a esigenze di sana e corretta amministrazione e ottempera a normative specifiche di natura civilistica e fiscale. Per le banche, la distinzione sulla esigibilità dei crediti è particolarmente regolamentata dagli organi preposti ai controlli: Banca d’Italia per le piccole banche italiane e la Bce per le grandi banche. Perché il governo si ostina a contabilizzare crediti fiscali che non sono recuperabili? È la solita ipocrisia italiana. Molte imprese di piccole e medie dimensioni hanno regolarmente dichiarato il reddito fiscale prodotto, ma non sono state in grado di pagare le imposte relative.

Il reddito fiscale è significativamente diverso da quello civilistico. L’utile calcolato rispettando le norme del Codice civile è sempre inferiore all’utile fiscale in quanto per l’erario non tutti i costi aziendali sono deducibili ai fini delle imposte. In sostanza, si devono pagare le imposte anche su redditi non realmente realizzati e, in conseguenza, le imprese non sono in grado di pagarle. L’esempio più comprensibile è quello che devi pagare per le imposte dirette e indirette anche se non hai incassato dai clienti.

Gli interessi e le sanzioni applicate dal fisco in caso di omesso o ritardato pagamento fanno lievitare il debito fiscale fino a farlo raddoppiare rendendo di fatto impossibile il pagamento per le oggettive difficoltà dell’impresa. Le rateizzazioni e le rottamazioni sono veri e propri pannicelli caldi che non hanno risolto il grave problema che porterà alla chiusura di decine di migliaia di piccole e medie imprese. Storicamente il recupero reale dello stock dei crediti fiscali datati non supera il 3-4 per cento del monte crediti. Molte imprese che non possono pagare i debiti fiscali preferiscono fallire. La liquidazione giudiziale di imprese causata da motivi fiscali ha delle implicazioni sociali devastanti: la chiusura delle aziende, la perdita di produzione, di posti di lavoro e di gettito fiscale e contributivo per lo Stato e gli Enti previdenziali. Pragmatismo vorrebbe che si applicasse quel detto: “Piuttosto che niente è meglio piuttosto”.

Un condono fiscale tombale che parametri il pagamento alle effettive possibilità di recupero permetterebbe all’erario introiti straordinari e ripristinerebbe in bonis aziende che altrimenti sarebbero destinate al fallimento. Il maggior carico fiscale generato da condoni non ha effetti economici negativi sui consumi. I politici dovrebbero avere il coraggio di dire come stanno realmente le cose. Nessuna impresa è in grado di sostenere un carico fiscale così alto. Ci vorrebbe un leader come Ronald Reagan che ha avuto il coraggio di affamare la bestia fiscale e non come il politicante italiano che, quando non ha argomenti, dice che occorre combattere l’evasione fiscale.

Aggiornato il 11 luglio 2022 alle ore 10:33