Ha suscitato stupore l’affermazione del direttore dell’Agenzia delle Entrate che in Italia ci sono 19 milioni di evasori fiscali. Ma non è stato notato – o notato poco – che non era tanto l’esternazione del dottor Ernesto Maria Ruffini ad essere discutibile ma – assai di più – il “ragionamento” di cui era il risultato.
Chi scrive è convinto che i 19 milioni di evasori di Ruffini siano una stima per difetto: in effetti ho l’impressione che il numero degli evasori sia poco inferiore all’intera popolazione maggiorenne italiana, cioè 45 milioni (almeno). Ciò per due motivi: il primo è che è l’appetito del fisco a creare l’evasione. Più è predatorio quello, più è diffusa questa, secondo la curva di Laffer, così sconosciuta nelle stanze del potere italiano. La seconda è la mediocre efficienza della Pubblica amministrazione: per cui c’è da presumere che ai diciannove milioni di evasori sagacemente “tassati” dal fisco, ve ne siano altrettanti – o giù di lì – che se la godono nella clandestinità. Anche perché il sistema principale per “recuperare l’evasione” collaudato da trent’anni è assai semplice: far pagare di più chi già paga.
La seconda imposta per gettito, cioè l’Iva, compie quest’anno 50 anni: per “recuperare l’evasione” l’aliquota nello stesso periodo è stata quasi raddoppiata: dal 12 al 22 per cento. Ad ogni aumento il solito coro di giubilo “paghiamone tutti, paghiamone meno” ma in effetti nella realtà sono sempre i soliti a pagare.
Ma ciò che rende debole e profondamente illiberale l’argomento di Ruffini è l’equivalenza tra pretese fiscali e fondatezza (anche giuridica) delle stesse. In altre parole, si presuppone che 19 milioni siamo debitori perché gli impiegati dell’Agenzia fiscale hanno emesso dei titoli esecutivi a loro carico. Che è proprio il contrario di quanto da oltre due secoli i teorici dello Stato di diritto sostengono: tra i tanti basti citare il Federalista (come faccio spesso) in cui si sostiene che i controlli sul governo (cioè in termini moderni e “continentali” sull’amministrazione pubblica) non sarebbero necessari se a governare fossero angeli, ossia moralmente irreprensibili e intellettualmente infallibili. Ma siccome non è così, scrivevano gli autori del “Federalista”, i controlli sono necessari. E l’intera costruzione dello Stato di diritto (e anche, meno coerentemente di altri “tipi” di Stato) si basa proprio su tale realistico giudizio sull’antropologia umana, e quindi burocratica.
La diffusione e l’istituzionalizzazione di limiti e controlli al potere, in primo luogo la giustizia nell’amministrazione, non è che la conseguenza di quello.
Credere il contrario non è soltanto manifestamente smentito dai fatti: è qualcosa che neppure gli ordinamenti più autoritari – forse (del tutto) neanche quelli totalitari – ammettono. Se il Papa è infallibile lo è solo quando parla ex-cathedra e in materie limitate. Ma l’infallibilità del Sommo Pontefice non emana verso uffici, impiegati, vescovi e parroci, mentre (pare che) quella fiscale si comunica per via gerarchica, dal direttore agli impiegati di concetto (se non anche più in giù). Per cui il ragionamento di Ruffini, sulla cui fondatezza non insistiamo, è sicuramente il contrario di quanto sostenuto dai teorici (e pratici) del Rechtsstaat.
Ma qualche conseguenza positiva la può avere: se è vero che gli evasori fiscali sono 19 milioni (come calcolato dal direttore) o molti di più, la conseguenza è che se vanno tutti a votare, e lo fanno coerentemente, i tempi del fisco predatorio sono agli sgoccioli: con una maggioranza così schiacciante un condono tombale (al minimo) è a portata di mano. Una riforma verso un fisco meno predatorio, probabile. Ricordate, gente, ricordate.
Aggiornato il 13 giugno 2022 alle ore 12:30