ArcelorMittal saluta l’Italia: investirà in Francia

Ecco un’altra occasione persa dall’Italia – pensiamo anche al nucleare francese e al referendum sovietico del post Chernobyl – ricordando al lettore quanto meno paghino i francesi l’elettricità (treni, prodotti, bollette) rispetto a noi, che pensiamo vegano mentre poi cannibalizziamo tutto e tutti. La maggiore multinazionale siderurgica, ovvero ArcelorMittal, investirà 1,7 miliardi di euro per decarbonizzare la produzione di acciaio nei suoi due impianti di Dunkerque e di Fos-sur-Mer.

“È senza dubbio il più grande investimento di ArcelorMittal in Francia, e questo significa che la produzione di acciaio in Francia ed Europa sarà perenne” dichiara – all’Agence France Presse – Eric Niedziela, presidente d’ArcelorMittal France e vice presidente di Action Climat d’ArcelorMittal Europe. Le acciaierie di Dunkerque e Fos rilasciavano finora il 25 per cento di tutti gli inquinanti francesi con effetto serra. Adesso tre altoforni a carbone su cinque saranno rimpiazzati da forni elettrici. Si ridurrà così del 10 per cento la quota di carbone utilizzato in tutta la Francia. A Dunkerque il carbone sarà sostituito dall’idrogeno, per purificare il ferro utilizzato. A Fos-sur-Mer ci sarà un forno elettrico per la produzione di acciaio riciclato, il che significa avere emissioni grandemente inferiori a quelle della produzione di acciaio nuovo.

ArcelorMittal riceverà gli aiuti pubblici del piano “France 2030”. Parigi investirà in tutto 5,6 miliardi – sui 34 in dotazione al piano – per aiutare i settori più inquinanti a ridurre le emissioni di diossido di carbonio e altri gas: si tratta delle produzioni di acciaio, alluminio, cemento e del settore chimico. L’investimento fa parte dei 10 miliardi di dollari previsti dal gruppo per ridurre il suo impatto globale in atmosfera. In Europa, nel 2030, la riduzione di gas serra da parte di ArcelorMittal rispetto al 2018 sarà del 35 per cento.

La disastrosa vicenda dell’Ilva di Taranto

L’atto di costituzione dell’Ilva, avvenuto a Genova nel febbraio del 1905, vide la compartecipazione dei gruppi Elba (basato a Portoferraio e fondato a Genova) e Terni, oltre alla famiglia Bondi, che aveva un altoforno a Piombino. Il nome Ilva in latino significa “ferroso” e indicava l’isola d’Elba. Dopo la Prima guerra mondiale, che portò al dissesto le aziende siderurgiche italiane, Ilva fu acquisita dall’Iri fascista. Nel 1961 le acciaierie di Cornigliano a Genova si fusero con Ilva con la ragione sociale di Italsider-Alti Forni e Acciaierie Riunite Ilva e Cornigliano.

Nel 1965 fu inaugurato il nuovo polo siderurgico di Taranto. Nei successivi decenni l’attività dell’Italsider si articolò sui quattro poli di Cornigliano, Piombino, Bagnoli e Taranto, oltre agli stabilimenti minori. Nel 1989, dopo una lenta agonia dell’Italsider, rinasce Ilva Spa. Italsider fu messa in liquidazione, l’impianto di Cornigliano fu ceduto e quello di Bagnoli fu chiuso (e ristrutturato come parco hi-tech “ad mentulam canis”). L’acciaieria di Piombino fu ceduta alla Lucchini di Brescia, mentre il polo siderurgico di Taranto, il più grande d’Europa, passò nelle mani del Gruppo Riva nel 1995. Nel 2012 si chiuse un’ampia e sacrosanta inchiesta sull’inquinamento e i morti causati dagli altoforni di Taranto. La magistratura ordinò il sequestro degli impianti. I Riva divennero i capri espiatori unici, mentre alcuni Enti tutelati al controllo glissarono dalle loro responsabilità, filandosela all’inglese. Lo Stato e i privati avrebbero dovuto e potuto salvare capra e cavoli (mezza Puglia viveva grazie all’acciaieria dei Riva). Per esempio, si poteva spostare una parte degli altoforni in zone meno abitate e si doveva ridurre l’inquinamento. Invece si decise di non decidere nulla, ovvero commissariare gli impianti e sequestrare il prodotto già venduto, tanto per ingarbugliare di più il nodo.

Dopo la gara di riassegnazione dell’impianto, nel 2018, fu scelta la Am Investco, formata dalla multinazionale di matrice indiana ArcelorMittal (un leader mondiale, che in Europa ha sede nel Lussemburgo), coadiuvato dal gruppo Marcegaglia. Nel 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per non aver tutelato il diritto alla salute a Taranto. A quel punto, a novembre dello stesso anno Arcelor-Mittal comunica l’intenzione di recedere dal contratto. Inizia un lungo periodo di caos e stupidità varie, con gli operai che oscillano tra paura di ammalarsi e desiderio di non perdere il lavoro, mentre la politica dondola tra Scilla e Cariddi senza trovare la giusta rotta. L’azienda vuole fuggire da Taranto (forse già allettata dalla Francia?), visto il tritacarne giudiziario a carico dei Riva e la consueta azione mediatica e politica contro il business, incluso quello onesto e non inquinante. La decisione di abbandonare l’impianto fu impugnata dal Governo italiano e dai commissari straordinari dell’Ilva.

Fu poi il turno di Am InvestCo Italy. Nel 2021, dopo l’entrata dell’agenzia governativa Invitalia nel capitale sociale della società, si decise di scindere l’azienda in Acciaierie d’Italia Holding, mentre ArcelorMittal Italia (rimasta in loco con il 62 per cento del capitale azionario, ma senza volerlo e senza esercitare direzione e coordinamento dell’azienda) diventava Acciaierie d’Italia. Erano 188 le imprese pugliesi dell’indotto Ilva di Taranto, con un fatturato di 310 milioni di euro. Il futuro dell’acciaio made in Italy resta ancorato a una perenne linea d’ombra.

Aggiornato il 09 febbraio 2022 alle ore 08:48