Sette contro uno: il pericolo giallo

Mai dire Gatto (giallo) se non l’hai nel sacco!”. La chiamata alle armi di Joe Biden, rivolta alle democrazie occidentali europee per arginare il Pericolo giallo della Cina imperial-comunista di Xi Jinping, assomiglia a un discorso da Ultimo dei Moicani. Un po’ per la tendenza atavica del Vecchio Continente a tenere ben saldo il piede in due staffe, evitando di mollare la leva dei soldi che va sacrificata soltanto pro forma (con sussurri e grida, ovvero con moltissime carote e un leggerissimo bastone) alla regola astratta del principio umanitario, che poi vuol dire tenersi stretti gli scambi commerciali più redditizi con il resto del mondo, come quelli con la Cina e il Sud Est asiatico. Un po’, sull’altro versante, vale il desiderio inespresso dell’Europa di contenere lo strapotere dell’alleato americano che, meglio non dimenticarlo mai, non è un player neutrale all’interno dello scenario della globalizzazione, ma un nostro competitor mondiale, tale e quale alla Cina in buona sostanza.

Ora, se la facciata dell’appena avvenuto G7 riluce dell’oro delle buone intenzioni, per una collaborazione sempre più stretta tra le maggiori democrazie mondiali, il dietro le quinte è densamente popolato di fantasmi con molte ombre e scarse luci. Vediamone alcuni di questi retroscena, messi in primo piano da The Economist, dal titoloForeigners rush inside the Great Wall. Innanzitutto, malgrado le accuse del virus cinese sfuggito al controllo del laboratorio biochimico di livello 4 di Wuhan, il decoupling tra economie occidentali e quella cinese rimane un miraggio e una utopia.

Questo perché, a parità di convenienza e opportunità, il mercato cinese della produzione di beni appare il migliore possibile per molte imprese occidentali (soprattutto nel caso delle multinazionali) che, nonostante siano state colpite in patria dalle misure restrittive anti-Covid (con il crollo relativo del Pil nazionale), sono state in grado di recuperare le perdite e di fare profitti grazie alle loro attività insediate in Cina. Per altri versi, la crisi pandemica ha evidenziato come la resilienza passi per una forte diversificazione delle catene di valore investendo in altri Paesi, lasciando orientativamente in Cina solo quelle attività prettamente orientate al soddisfacimento della domanda interna.

Su 600 compagnie che hanno risposto al questionario che è stato loro sottoposto dalla Camera di Commercio europea per l’interscambio con la Cina, il 91 per cento si è detto intenzionato a mantenere i propri investimenti sul mercato cinese, anziché a delocalizzare. Soprattutto, questa tendenza conservatrice è piuttosto marcata nel settore automotive (la Volkswagen tedesca ha esportato in Cina, malgrado la crisi, 3,5 milioni di autovetture nell’ultimo anno!), che ha visto accrescere il suo volume d’affari in quanto le classi benestanti cinesi, non potendo fare vacanze all’estero, hanno investito nell’acquisto di beni di lusso. Più di un quarto delle imprese intervistate hanno manifestato l’intenzione di mantenere interamente in Cina le loro catene di approvvigionamento, mentre solo il 5 per cento ha scelto di delocalizzare. Prevale in assoluta maggioranza, tuttavia, lo stesso scetticismo di prima sul fatto che Pechino apra finalmente i suoi mercati, allineando così sul piano regolamentare le imprese locali a quelle estere.

Un sesto delle imprese sondate ha dichiarato di essere state costrette al trasferimento di tecnologie avanzate pur di restare sul mercato cinese, mentre i due quinti sostengono che il mondo cinese degli affari sia più politicizzato che mai. Le compagnie europee hanno perduto negli ultimi tempi varie opportunità di lavoro, poiché la legislazione cinese impone alle imprese estere, che utilizzano all’interno del suo territorio tecnologie sensibili, di essere affidabili e di sottoporsi al controllo della Autorità preposte. Tra l’altro, le leggi cinesi che governano il settore fanno divieto di trasferire oltreconfine i dati definiti sensibili, cosa che crea un forte aggravio di costi per le imprese multinazionali, costrette a duplicare i database, sistemi di cloud e software per gestire le proprie attività in Cina, reclutando esclusivamente sul mercato locale manodopera specializzata e team di sviluppatori.

Le imprese, quindi, sono costrette a duplicare le operazioni tenendo conto della Cina, da un lato, e del resto del mondo dall’altro. Nota The Economist: “Malgrado le lamentele su quanto sia dura la vita in Cina per le imprese occidentali, un cinico funzionario cinese si chiederebbe, a ragione, perché la Cina dovrebbe ascoltare la richiesta di fare le riforme che viene dall’esterno, quando coloro che si lamentano se la cavano benissimo e aumentano persino i loro investimenti?”. Mentre, al contrario, alla faccia della solidarietà occidentale, la comunità d’affari europea risponde con la delocalizzazione delle proprie attività, in reazione ai controlli americani sull’export e sulle tecnologie sensibili!

Xi Jinping, da buon imperatore dell’era moderna, accoglie a braccia aperte le imprese estere che commercializzano beni che la Cina ancora non è ancora in grado di produrre autonomamente (tipo chimica high-tech e macchinari industriali), permettendo loro di creare filiali cinesi di proprietà esclusiva degli investitori stranieri, in modo da proteggere i relativi brevetti e segreti commerciali, sbarrando così il passo ai rivali più deboli.

A livello immediatamente inferiore si collocano le produzioni di lusso europee come l’automotive, purché i beni relativi vengano costruiti in Cina e impieghino manodopera locale, pagando in loco le tasse dovute. Del resto, non poche multinazionali maturano in Cina oltre la metà dei loro profitti annuali, grazie al fatto che l’intero ciclo produttivo si svolge all’interno della Grande Muraglia! Per di più, reclutare localmente manodopera qualificata significa non dovere pagare il trasferimento all’estero di quella propria che, di solito, non è altrettanto valida! E qui sorge la seguente questione filosofica: “Ha senso per le imprese occidentali operare in Cina come farebbe qualunque azienda locale, per generare reddito da dividere con gli investitori globali?”. Risposta: occorre bilanciare due versioni opposte di rischio (amletico) tra l’esserci e non esserci. La politica (vedi Biden) dice “decoupling”. I latini aggiungerebbero “cum grano salis”.

Aggiornato il 15 giugno 2021 alle ore 11:16