Equitalia ed equità

Con la sentenza numero 3079 del 2015, il Tribunale di Venezia ha accolto l’opposizione di un artigiano veneto annullando cartelle esattoriali di Equitalia per oltre 660mila euro.

Il motivo è semplice e giusto, al tempo stesso, e si può riassumere così: quando l’esattore vanta delle pretese deve averne titolo e, soprattutto, deve dimostrarlo. Il titolo è un documento formato dall’ente creditore (nella fattispecie Inps e Inail) che si chiama ruolo e deve essere sottoscritto dal responsabile dell’ente. Se non c’è prova del titolo, le cartelle vanno annullate. In molti mi hanno chiesto, dopo la storica sentenza, che valenza essa abbia e, più prosaicamente, come ci si sente ad averla ottenuta. Dunque, da cittadini, penso più leggeri e fiduciosi nel fatto che, se non a Berlino (lo sosteneva Brecht), quantomeno nella laguna veneta un giudice esiste. Come avvocati, si è soddisfatti per l’affermazione di un principio che il Potere è così solerte nell’applicare ai sottoposti e così restio nell’attuare con se stesso. L’unica maniera per arrivarci è non stancarsi nell’esigere che la forma si faccia sostanza, in modo bidirezionale. Dallo sceriffo di Nottingham a Robin Hood, è normale. Nel senso contrario, quasi impossibile. Provate voi a pagare una multa il giorno dopo la scadenza. Raddoppia. E se vi sgolate nel protestare di non esserci riusciti per un contrattempo familiare o per una dimenticanza (ma l’avete pur sempre saldata, con ventiquattr’ore di ritardo appena!) troverete migliaia di giudici zelanti e altrettanti avvocati scrupolosi ad ammonirvi che dispiace, ma il rispetto dei termini non tollera deroghe. Dura lex, sed lex. Paga, suddito.

Ecco, l’idea rivoluzionaria è che il brocardo latino della dura lex valga non solo per chi la legge la subisce (l’uomo della strada), ma anche per chi della legge, di regola, si giova (l’Esattore, lo Stato, il Sistema). È incredibile come diventi ‘notizia’ un fatto normale. L’uomo che batte il Sistema è un po’ come l’uomo che morde il cane. Va bene, lo accettiamo. Poi c’è un’altra faccenda, un’altra domanda che mi riguarda da vicino. C’è un nesso tra questa lettura giuridica e la dimensione che attiene, invece, ai tuoi studi in materia di comunicazione e di formazione e alla tua attività di scrittore? Qui la risposta è ancora più facile, forse. Non c’è avvocato che non sia anche scrittore, in fondo: di atti, di memorie, di comparse con cui perorare le sorti di Robin Hood. Eppure, non c‘è nemmeno scrittore che non sia avvocato, difensore delle sue idee, dei suoi principi, delle sue visioni del mondo e della storia. La sentenza del Tribunale di Venezia, da questo punto di vista, ha una valenza eminentemente comunicativa e formativa, ma anche letteraria. Comunica la speranza di potercela fare, di essere, tutti noi, parti di un modello di convivenza in cui la cifra della civiltà passa anche attraverso la natura indipendente e imparziale dei suoi organi di giustizia e la tenacia di cittadini convinti di poter ottenere ragione, nonostante la disparità delle forze in campo. Nello stesso tempo, è una pronuncia in grado di formare coscienza, come tutti i verdetti che travalicano il caso singolo per farsi allegoria di un’epoca. È la piccola storia di un uomo qualsiasi che ne racchiude un’altra di più grande ed esemplare. Perciò, essa veicola, in tutto e per tutto, una vicenda letteraria, anzi, per dir meglio, narrativa, perché è impregnata di quel classico ingrediente (la sospensione dell’incredulità) che costituisce uno dei requisiti irrinunciabili di tutti i racconti ben riusciti.

Alla fine, comunque sia, si parte dalla scrittura e si torna alla scrittura. In modo peculiare per chi, occupandosi di strategie della formazione e di tecniche della comunicazione, si avvede di quanto le une e le altre siano spesso funzionali ai disegni sofisticatori della Matrice. Allora scrivere non è più un accidente inevitabile della tua biografia personale. Non è una variante seccatura del tuo profilo professionale. Non è una contingenza figlia del ruolo che la vita ti ha assegnato, magari da adempiere controvoglia. Se hai studiato e sviscerato le forme e i canali e le tecniche attraverso i quali il Potere viene mediato e i suoi destinatari manipolati, allora scriverne non è più solo un diritto. È un dovere.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:46