La grande finanza internazionale si affanna ad interpretare le future mosse di politica monetaria della Bce. Secondo molti “analisti-indovini”, il governatore Mario Draghi nella sua ultima conferenza stampa mensile avrebbe fatto capire che forse a giugno abbasserà ulteriormente il tasso di interesse. Attualmente è fissato a 0,5%. Probabilmente, come in più occasioni evidenziato anche da noi, sotto la pressione della Federal Reserve e di certi settori del mercato, Francoforte potrebbe anche lanciare una specie di quantitative easing - acquisto di titoli stampando soldi - per far salire il tasso di inflazione.
La Fed da tempo sta “attaccando” l’Unione europea, il sistema dell’euro e la Bce la cui politica sarebbe responsabile del rischio di deflazione, che si verifica, come è noto, quando la recessione economica, combinata con la caduta della domanda, fa scendere i prezzi. Di conseguenza l’“inflazione negativa” rende anche difficile l’abbattimento dei livelli del debito pubblico. Mentre si chiede all’Europa di aprire i rubinetti della liquidità da far rifluire nel settore bancario e nel mercato, negli Stati Uniti però molti suonano l’allarme di possibili nuove bolle a Wall Street.
Infatti, poco dopo l’esplosione della crisi del 2008, a seguito delle ingenti immissioni di liquidità a beneficio più della finanza e delle banche che di una genuina ripresa produttiva, il mercato azionario ha registrato un continuo e progressivo boom. L’andamento dell’economia, invece, per cinque anni è stato di una lentezza esasperante. Dal 2009 al 2012 il valore di un investimento nell’indice azionario Standard & Poor’s 500 si è raddoppiato e nel 2013 è cresciuto di un altro 18%. Tale dirompente crescita del valore dei titoli quotati a Wall Street è sproporzionata rispetto all’andamento dei profitti delle corporation sottostanti. Secondo certi studi, simili grandi squilibri, misurati nel periodo di circa 10 anni, si sarebbero verificati altre tre volte negli ultimi cento anni: negli anni venti, verso la fine degli anni novanta e prima del crac del 2007.
L’economia americana di oggi sembra costruita apposta per far crescere i valori dei titoli a Wall Street. I tassi di interesse sono mantenuti bassi da una debolissima crescita economica. Contemporaneamente si riducono i costi delle industrie e si fanno sembrare più appetibili i titoli azionari rispetto ad altri investimenti più sicuri ma meno redditizi. È un trend già visibile anche in molti Paesi dell’Ue. Nonostante un andamento più che mediocre dell’economia, i livelli di profitto delle corporation americane sono relativamente alti, soprattutto per il fatto che esse controllano rigidamente il lavoro e riescono a comprimere i livelli dei salari. Il prolungato boom della borsa ha sempre avuto molte spiegazioni e giustificazioni ma i precedenti storici non sono tranquillizzanti.
Uno dei parametri più realistici per studiare le fasi di boom-bust (espansione e frenata) delle borse è quello che misura per un periodo di 5-10 anni il rapporto tra il prezzo del titolo azionario rispetto al tasso di profitto della corporation cui è legato. È statisticamente dimostrato che, quando tale rapporto raggiunge per un lungo periodo la soglia di 25, si è alla vigilia di un nuovo crac delle borse. Nel 1871, ad esempio, il tasso di 25 a 1 tra il valore dei titoli azionali e i profitti delle corporation sottostanti, mantenuto mediamente per 5 anni consecutivi, portò a un calo della borsa del 12%.
Riteniamo che tali questioni e prospettive vadano opportunamente valutate in un momento in cui il mondo della finanza e della comunicazione da essa controllata sta spingendo l’Europa sulla strada della Fed. Qualche settimana fa il Tesoro americano e la Fed hanno accusato l’Europa, ed in particolare la Germania, di essere responsabili del rischio di deflazione. Le autorità monetarie americane, quindi, chiedono alla Germania di aumentare non solo i consumi ma anche la liquidità circolante. La Bundesbank ha rigettato le accuse come infondate.
Certo è vero che la stagnazione economica in Europa, non solo in Italia, si protrae da troppo tempo ed è ora che anche la Germania, insieme ai partner europei, si convinca a sostenere, oltre al fiscal pact, anche un forte programma di sviluppo infrastrutturale, tecnologico e occupazionale per far ripartire l’economia dell’intera Unione.
(*) Sottosegretario all’Economia del Governo Prodi
(**) Economista
Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:18