Una difesa liberista dell'euro/3

Continuiamo la pubblicazione in quattro puntate della relazione che il professor Jesus Huerta De Soto presenterà il prossimo 3 settembre a Praga in occasione della Riunione Generale della Mont Pèlerin Society.

In ambito più accademico, ma anche con ampia copertura dei media, teorici contemporanei keynesiani stanno creando una grande offensiva contro l’euro, nuovamente con una belligeranza solo paragonabile a quella che aveva Keynes nei confronti del gold standard nel 1930. Specialmente paradigmatico è il caso di Krugman che, da editorialista, racconta la stessa storia vecchia quasi ogni settimana su come l’euro sia una “camicia di forza” per la ripresa dell’occupazione e arriva persino a criticare il dissoluto governo americano per non essere sufficientemente espansivo e per essere caduto nei suoi (enormi) stimoli fiscali. Più intelligente e colta, ma non meno sbagliata, è l’opinione di Skidelsky, dato che almeno spiega che la teoria del ciclo economico austriaca [16] offre l’unica alternativa al suo amato Keynes e riconosce chiaramente che la situazione attuale comporta una ripetizione del duello tra Hayek e Keynes negli anni Trenta.

Ancora più strana è la posizione assunta riguardo i tassi di cambio flessibili dai teorici neoclassici della scuola di Chicago. Sembra che l’interesse di questo gruppo nei tassi di cambio flessibili e nel nazionalismo monetario predomini sul loro (si presume sincero) desiderio di incoraggiare le riforme di liberalizzazione economica. Infatti il loro obiettivo primario è quello di mantenere la politica monetaria autonoma e di essere in grado di svalutare (o deprezzare) la valuta locale per “recuperare competitività” e assorbire la disoccupazione il più presto possibile, e solo allora, alla fine, si concentrano sul tentativo di favorire la flessibilità e sulle riforme per un mercato libero. La loro ingenuità è estrema e abbiamo fatto riferimento ad essa nella nostra discussione sulle ragioni del dissenso tra Mises, dal lato della Scuola Austriaca, e Friedman, dal lato dei teorici di Chicago, nel dibattito sui tassi di cambio fissi contro quelli flessibili. Mises ha sempre visto molto chiaramente che i politici non sono capaci di prendere misure nella giusta direzione se non sono letteralmente obbligati a farlo e che i tassi flessibili e il nazionalismo monetario rimuovono ogni incentivo in grado di disciplinare i politici, abolendo la “rigidità verso il basso” dei salari (che diventa una sorta di presupposto che si auto realizza e che i monetaristi e i keynesiani accettano con tutto il cuore) e i privilegi di cui godono i sindacati e tutti gli altri gruppi di pressione. Mises ha anche osservato che, di conseguenza, nel lungo periodo e anche loro malgrado, i monetaristi finiscono per diventare compagni di viaggio delle vecchie dottrine keynesiane: una volta che la “competitività” è stata “recuperata”, le riforme vengono rinviate e, ancora peggio, i sindacalisti diventano abituati agli effetti distruttivi delle loro politiche regolatrici continuamente mascherate da svalutazioni successive.

Questa contraddizione latente tra la difesa del libero mercato e il sostegno al nazionalismo monetario e la manipolazione attraverso cambi “flessibili” è evidente in molti fautori dell’interpretazione più diffusa della teoria di Robert A. Mundell sulle “aree valutarie ottimali”. Tali aree sarebbero quelle in cui, tanto per cominciare, tutti i fattori produttivi sono altamente mobili, perchè, se non fosse questo il caso, sarebbe meglio dividerli in compartimenti con valute di minor portata, per permettere l’uso di una politica monetaria autonoma nel caso di ogni “shock esterno”. Comunque dovremmo chiederci: questo ragionamento ha senso? Non del tutto: la maggior fonte di rigidità nel lavoro e il fattore da cui attualmente il mercato è bloccato e sanzionato, è  rappresentato dalll’interventismo e dalla regolamentazione statale del mercato, quindi è assurdo pensare che gli stati e i loro governi commettano harakiri, perdendo il loro potere e tradendo la loro clientela politica, al fine di adottare una moneta comune dopo. Invece, l’esatto contrario è vero: solo quando i politici hanno raggiunto una moneta comune (l’euro nel nostro caso), sono stati forzati ad attuare le riforme che fino a poco tempo fa sarebbero state inconcepibili per loro. Nelle parole di Walter Block:

«il governo è la principale o unica fonte dell’immobilità. Lo stato, con le sue regole… è la ragione principale per cui i fattori di produzione sono meno mobili di quanto sarebbero altrimenti. In altri tempi i costi di trasporto sarebbero stati la spiegazione e causa principale, ma con tutti i progressi tecnologici raggiunti, questo fattore è molto meno importante nel nostro mondo moderno “sempre più piccolo”. Se è così, allora sotto il capitalismo del laissez-faire non ci sarebbe praticamente nessun fattore di immobilità e, data la verità approssimativa di questi presupposti, la regione mundelliana diventa quindi l’intero globo – proprio come sarebbe in un regime di gold standard».

Questa conclusione di Block è ugualmente applicabile per l’area dell’euro, nella misura in cui gli atti dell’euro, che abbiamo già indicato come una “delega” per il gold standard, riescono a disciplinare e limitare il potere arbitrario dei politici degli stati membri.

Non dobbiamo mancare di sottolineare che keynesiani, monetaristi e mundelliani si sbagliano tutti perché ragionano esclusivamente in termini di aggregati macroeconomici, e quindi propongono, con lievi differenze, lo stesso tipo di regolazione attraverso la manipolazione monetaria e fiscale, la “messa a punto” di flessibili tassi di cambio. Essi credono che tutto lo sforzo necessario per superare la crisi dovrebbe essere guidato da modelli macroeconomici e dall’ingegneria sociale. Così ignorano completamente la profonda distorsione microeconomica che la manipolazione monetaria (e fiscale) genera nella struttura dei prezzi relativi e in quella dei beni capitali. Una svalutazione forzata (o deprezzamento) è onnicomprensiva, ovvero comporta un improvviso calo percentuale lineare nei prezzi dei beni di consumo, dei servizi e dei fattori produttivi, un calo che è uguale per tutti. Sebbene nel breve questo dia l’impressione di una ripresa intensa attività economica e un rapido assorbimento della disoccupazione, in realtà distorce completamente la struttura dei prezzi relativi (dal momento che senza la manipolazione monetaria alcuni prezzi sarebbero calati maggiormente, altri meno e altri non sarebbero scesi del tutto e altri ancora sarebbero, invece, saliti), porta ad una diffusa cattiva allocazione delle risorse produttive, e provoca un trauma importante che ogni economia necessiterebbe di anni per elaborare e riprendersi. Questa è l’analisi microeconomica centrata sui prezzi relativi e la struttura produttiva che i teorici austriaci hanno sviluppato e che, al contrario, manca completamente nello strumentario analitico dei teorici dell’economia che si oppongono all’euro.

Infine, al di fuori della sfera puramente accademica, l’insistenza fastidiosa con cui gli economisti anglosassoni, gli investitori e gli analisti finanziari tentano di screditare l’euro, prevedendo un tetro futuro, è in qualche modo sospetta. L’impressione è rafforzata dalla posizione ipocrita delle diverse amministrazioni americane (e anche, in misura minore, dal governo britannico) nel desiderare (tiepidamente) che l’euro-zona tenga “la sua economia in ordine” e omettendo con interesse che la crisi finanziaria si è originata dall’altro lato dell’Atlantico, cioè nell’incosciente e espansionistica politica perseguita dalla Federal Reserve per anni, i cui effetti si sono diffusi nel resto del mondo attraverso il dollaro, che è ancora utilizzato come valuta di riserva internazionale. Inoltre, c’è un’insopportabile pressione per l’euro zona affinché introduca politiche monetarie tanto espansionistiche e irresponsabili (“quantitative easing”) quanto quelle adottate negli Stati Uniti e questa pressione è doppiamente ipocrita, dal momento che una tale evenienza darebbe senza dubbio il colpo di grazia alla moneta unica europea.

Questa posizione nel mondo anglosassone non potrebbe nascondere un timore che il futuro del dollaro come valuta di riserva internazionale può essere minacciata se l’euro dovesse sopravvivere e fosse in grado di competere efficacemente con il dollaro in un futuro non troppo distante? Tutte le indicazioni suggeriscono che la questione stia diventando sempre più pertinente e, anche se oggi non sembra molto politically correct, c’è l’impressione che si versi il sale sulla ferita che è più dolorosa per gli analisti e le autorità del mondo anglosassone: l’euro sta emergendo come un potenziale rivale enormemente potente per il dollaro a livello internazionale.

Come possiamo vedere, la coalizione anti-euro riunisce diversi e potenti interessi. Ognuno diffida dell’euro per una ragione diversa. Tuttavia tutti hanno un comune denominatore: gli argomenti che costituiscono la base della loro opposizione all’euro sono gli stessi, potrebbero ripeterli con ancora più enfasi se invece che la singola valuta europea avessero a che fare con il classico sistema monetario del Gold Standard. In realtà vi è un elevato grado di somiglianza tra le forze che hanno stretto un’alleanza per costringere l’abbandono del gold standard e quelli che oggi cercano (fino ad ora senza successo) di reintrodurre il vecchio e obsoleto nazionalismo monetario in Europa. Come abbiamo già indicato, tecnicamente era molto più facile abbandonare il gold standard allora di quanto sarebbe oggi per qualsiasi paese lasciare l’unione monetaria. In questo contesto, non dovrebbe sorprendere che i membri della coalizione anti-euro spesso cadano nel disfattismo più sfacciato: predicono un disastro e l’impossibilità di mantenere un’unione monetaria e poi propongono la “soluzione” di smantellarla immediatamente. Essi si spostano anche così lontano per tenere concorsi internazionali (- dove altro – in Inghilterra, la casa di Keynes e del nazionalismo monetario) in cui centinaia di “esperti” e pazzi partecipano ognuno con le sue proposte per la migliore e più innocua strada per fa crollare l’unione monetaria europea.

5. I veri peccati capitali dell’Europa e l’errore fatale della Banca Centrale Europea.

Nessuno può negare che l’Unione Europea soffra cronicamente di una serie di gravi problemi economici e sociali. Tuttavia, il chiacchierato euro non fa parte di loro. Piuttosto è vero il contrario: l’euro agisce come un potente catalizzatore che rivela la gravità dei veri problemi in Europa e accelera o “precipita” l’attuazione delle misure necessarie per risolverle. Infatti, oggi, l’euro sta aiutando a diffondere, più che mai, consapevolezza sull’insostenibilità dell’enorme stato sociale europeo e sulla necessità sostanziale di una sua riforma. Lo stesso si può dire per gli onnicomprensivi programmi di aiuto e sovvenzione, tra i quali la Politica Agricola Comune occupa una posizione chiave, sia in termini dei suoi dannosi effetti sia nella sua totale mancanza di razionalità economica. Soprattutto possiamo dire che la cultura dell’ingegneria sociale e la regolamentazione oppressiva, con il pretesto di armonizzare la legislazione dei diversi paesi, fossilizzano il mercato unico europeo impedendogli di essere un vero e proprio mercato libero. Ora più che mai, il vero costo di tutti questi difetti strutturali si sta evidenziando nell’eurozona: senza una politica monetaria autonoma i vari governi sono stati letteralmente costretti a riconsiderare (e, quando possibile, a ridurre) tutte le loro voci di spesa pubblica, tentando di recuperare e guadagnare competitività internazionale con la deregolamentazione e l’aumento, quando applicabile, della flessibilità dei loro mercati (in particolare il mercato del lavoro, che è tradizionalmente molto rigido in molti paesi dell’unione monetaria).

In aggiunta ai peccati capitali dell’economia europea di cui sopra, dobbiamo aggiungerne un altro che è forse ancora più grave, per via della sua peculiare natura subdola. Ci riferiamo alla grande facilità con cui le istituzioni europee, molte volte a causa di una mancanza di lungimiranza, leadership o convinzione riguardo i loro stessi progetti, si permettono di rimanere impigliate nelle politiche che nel lungo periodo sono incompatibili con le esigenze di una singola valuta e di un vero mercato unico libero. In primo luogo è sorprendente notare la crescente regolarità con cui vengono introdotte le fiorenti e soffocanti nuove misure di regolamentazione in Europa dal mondo accademico e politico anglosassone, in particolare gli Stati Uniti, spesso quando tali misure si sono già dimostrate inefficaci o estremamente dirompenti e spiazzanti. Questa influenza malsana fa parte di una lunga tradizione consolidata (ricordiamo che i sussidi agricoli, la legislazione antitrust e le regolamentazioni in materia di “responsabilità sociale delle imprese” sono in realtà nate, come molti altri interventi fallimentari, negli Stati Uniti). Oggi queste misure di regolamentazione sono rinforzate ad ogni passo, ad esempio il cosiddetto “giusto valore di mercato” e il resto dei principi contabili internazionali o i tentativi (finora, fortunatamente falliti) di attuare i cosiddetti accordi di Basilea III per il settore bancario e Solvency II per il settore assicurativo, entrambi i quali soffrono di carenze teoriche e mancanze teoriche fondamentali e insormontabili, così come pure gravi problemi in relazione alla loro applicazione pratica.

Traduzione di Francesco Simoncelli, Antonio Manno, Nicolò Signorini e Luigi Pirri

3/continua

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:31