Altro che Moody’s, è l’analisi dell’Fmi sulle prospettive dell’economia globale, dell’Eurozona, e sul rischio di Italia o Spagna di perdere l’accesso ai mercati, a far schizzare lo spread vicino ai 500 punti. L’istituto di Washington sollecita l’attivazione del meccanismo anti-spread, ma Palazzo Chigi fa sapere che al momento non c’è alcuna intenzione né necessità di ricorrervi, anche se non si può escludere per il futuro. Oltre che sui giudizi delle agenzie di rating bisognerebbe indagare su ciò che ha spinto i grandi quotidiani italiani a presentare Monti come vincitore del vertice europeo del 29 giugno e la cancelliera Merkel come sconfitta. Come avevamo avvertito su queste pagine, la vittoria calcistica ci fu, ma sul piano politico si trattò di un pareggio, di un compromesso.
I giornali che non perdono occasione per annunciare improbabili cedimenti tedeschi alla linea Monti sono puntualmente costretti a registrare con imbarazzata sorpresa le parole della Merkel, e a presentarle come “doccia fredda” o “frenata”, ma in realtà la posizione di Berlino è sempre la stessa: anche il meccanismo anti-spread verrà attivato solo a precise condizioni (al pari degli altri aiuti) e per di più solo a settembre. Se il termine “troika” è troppo umiliante politicamente perché ricorda la Grecia, chiamatelo pure “paperino”, ma la sostanza cambia davvero poco: non sarà né gratis né senza scrupolosi controlli. La Spagna ha ottenuto i fondi per ricapitalizzare le sue banche in cambio di una correzione dei conti da 65 miliardi. Allo stesso modo l’Italia di Monti sta “trattando” le condizioni per l’eventuale ricorso allo scudo anti-spread. In questa chiave vanno lette l’accelerazione sui tagli alla spesa (da 7-8 miliardi a 26 in due anni e mezzo) e le dismissioni per 15-20 miliardi l’anno, l’1% del Pil, annunciate dal neo ministro Grilli (perché solo ora?). Secondo il ministro, con un avanzo primario del 5% e il ritorno alla crescita, dovrebbero portare ad una riduzione del debito fino al 105% in 5 anni. Una previsione che si scontra però con le stime – nemmeno le più pessimistiche – dell’Fmi, che ci attribuisce sì un piccolo avanzo primario già nel 2013, ma vede il debito attestarsi sul 125,8% nel 2012 e sul 126,4% nel 2013 (2,5 e 2,6 punti in più rispetto alle stime precedenti).
Monti, da parte sua, parlando di un «duro percorso di guerra», non escludendo il ricorso all’Esm e attaccando la «concertazione» causa di tutti i nostri mali, cerca di preparare gli italiani ad altri possibili shock. Insomma, la sensazione è che il governo si stia preparando alla tempesta di agosto, che potremmo dover affrontare senza lo scudo anti-spread (attivo solo da settembre). Dopo un anno, potremmo ritrovarci nell’identica drammatica situazione dell’estate scorsa. In attesa dello scudo, l’Italia potrebbe essere difesa da una ripresa del programma di acquisti della Bce, ma i 500 miliardi dell’Esm potrebbero comunque rivelarsi insufficienti rispetto agli oltre 400 miliardi da rifinanziare nei prossimi 12 mesi e potremmo quindi aver bisogno dell’intervento anche dell’Fmi.
Per questo dovremo farci trovare pronti a nuovi “compiti a casa”, se vorremo evitare un sostanziale commissariamento. La ratifica del fiscal compact e l’approvazione della spending review entro la prima settimana di agosto potrebbero non bastare. Se era ben noto, come lo era, che il nostro vero punto debole rispetto agli altri è l’elevato stock di debito pubblico, perché in tutti questi mesi nessun governo – nemmeno quello tecnico – si è adoperato subito per abbatterlo di diversi punti di Pil? Oggi potrebbe essere troppo tardi.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:24