Articolo 18, ultima spiaggia

Dopo le finte liberalizzazioni, il governo Monti rischia di archiviare anche in merito alla riforma dell'articolo 18 una ulteriore bolla di sapone. Soprattutto se, come ho già avuto modo di scrivere su queste pagine, l'iter parlamentare della stessa riforma consentirà al Pd di introdurre qualche modifica sull'elemento sostanzialmente dirimente: la licenziabilità per motivi economici. Nei fatti il testo proposto dal governo, occorre comunque dire, non esclude completamente la possibilità del reintegro per i lavoratori che ricadono in questa tipologia. Infatti, come è emerso chiaramente nel corso di una accesa discussione durante l'ultima puntata di "Ballarò", presente il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Catricalà, risulta sempre possibile far annullare da un giudice un licenziamento economico che nasconda, ad esempio, motivi discriminatori o disciplinari. In tal caso scatterebbe automaticamente l'obbligo di riassumere il dipendente licenziato. Solo che, rispetto al passato, l'onere della prova spetterà a quest'ultimo. Per tale motivo, condividendo un analogo giudizio espresso nel suo blog da Oscar Giannino, complessivamente non si può dare un giudizio positivo per una riforma del lavoro che, oltre a creare ulteriore confusione nei rapporti tra aziende e salariati, appesantisce i costi per il sistema produttivo nel suo complesso, estendendo anche alle piccole imprese i gravami per il finanziamento dei nuovi ammortizzatori sociali. 

Senza poi contare  il forte irrigidimento sul piano delle svariate forme contrattuali finora esistenti nel Paese, le quali hanno fin qui consentito soprattutto alle aziende minori di far fronte al crescente costo del lavoro con le più svariate forme di flessibilità. Ora, l'aver ristretto molto le citate tipologie contrattuali, nell'ambito di una crisi economica senza precedenti, rischia di penalizzare ancor più l'occupazione, disincentivando le aziende ad assumere. Infatti, al di là della foglia di fico dell'articolo 18, è il costo del lavoro, il quale comprende un eccessivo cuneo fiscale, il vero problema che paralizza la propensione del sistema a crescere e, di conseguenza, ad aumentare sia il tasso di occupazione relativa e sia quello assoluto, ovvero basato sull'intera popolazione adulta. Ma per abbattere la componente non salariale, ovvero ciò che lo stato preleva complessivamente per ogni occupato - cifra che per la cronaca supera ampiamente lo stipendio netto - occorre tagliare la spesa pubblica, visto che non è più possibile ridurre in deficit, pena l'esplosione dello spread, alcuna forma di prelievo fiscale. Una scelta, quest'ultima, esclusa quasi da subito dal governo Monti, adducendo come motivo la mancanza di un tempo ragionevole onde operare i necessari interventi sull'ammontare complessivo delle uscite pubbliche, il quale ha oramai raggiunto la mostruosità di 850 miliardi di euro all'anno. 

In realtà, sebbene tagliare in modo strutturale la spesa pubblica non è semplice e necessita di uno spazio temporale ampio, tuttavia sarebbe stato possibile iniziare un percorso di risanamento dei conti pubblici che non passasse unicamente, così come è stato deciso di fare, solo attraverso la strada sempre più pericolosa dell'inasprimento delle tasse. Un governo che avesse veramente a cuore il futuro del Paese lo avrebbe fatto, anche a costo di mettere a repentaglio la propria popolarità. Una popolarità che, come segnalano gli ultimi sondaggi, per Monti&soci risulta in caduta verticale proprio per aver toccato i fili di una riforma del lavoro che, come sopra accennato, in realtà riveste più che altro un valore simbolico. Non era meglio perdere fette di gradimento cominciando a far dimagrire uno stato leviatano che si pappa il 54% del Pil? D'altro canto, come dimostra la risalita del tasso d'interesse sui nostri titoli, se il nostro sistema pubblico continua a costare troppo, ogni operazione di facciata non può che peggiorare nel medio e nel lungo periodo la nostra difficile situazione.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 18:41