L’arte libera non ha bisogno di commissari

Le aste e le mostre di settembre ricordano che creatività e collezionismo fioriscono quando nessuno pretende di guidarli dall’alto. Quando la politica decide di “indirizzare”, spegne la scintilla.

Settembre riapre i battenti e il mondo dell’arte torna ad animarsi. È quindi il momento giusto per ricordare una verità elementare: l’arte vive dove c’è spazio per rischiare. Un autore sperimenta senza chiedere permesso; un gallerista scommette su un nome sconosciuto; un collezionista acquista con il proprio denaro e sopporta il rischio di sbagliare. Questa catena di decisioni volontarie non ha bisogno di regole speciali né di comitati che certifichino il valore. Ha bisogno, piuttosto, di proprietà tutelate, di regole semplici, di tempi certi.

Da decenni si ripete, hinc et inde, che “l’arte va sostenuta”, quasi fosse incapace di reggersi senza sussidi e dipendesse più dai trasferimenti pubblici che dalla libera scelta di chi la ama e la coltiva. Nondimeno, sostenere non significa sostituirsi a chi crea e a chi sceglie. Un fondo, un bonus, un bando opaco dicono questo: un ufficio decide meglio di pubblico e professionisti. Così l’arte diventa pedagogia, non scoperta. Si premiano appartenenze e si congela l’errore creativo, che è il cuore dell’innovazione.

Il mercato, in verità, non è il contrario della bellezza: è il suo respiro. Prezzi e aggiudicazioni non sono feticci, al contrario, sono segnali che aggregano migliaia di valutazioni individuali. Consentono pentimenti e riscoperte. È questa revisione continua a impedire la museificazione del presente. Un artista oggi ignorato può essere ritrovato domani; un capolavoro dimenticato riemerge quando qualcuno decide di cercarlo, di studiarlo e di investirvi.

Si obietta tuttavia: senza intervento pubblico molti non accederebbero mai all’arte. È l’argomento più seducente, perché si presenta come inclusivo. Invero, l’accesso reale non dipende da un biglietto calmierato; dipende invece dalla circolazione. Fondazioni nate da collezioni private, mostre temporanee organizzate da gallerie, prestiti tra istituzioni, aste che rendono visibili opere altrimenti invisibili: così le persone incontrano i lavori senza che qualcuno imponga un gusto preconfezionato.

Un altro equivoco ricorrente riguarda la cosiddetta “funzione sociale”. Ogni volta che un bando pretende di misurarla in anticipo, chiede all’arte di smettere di essere arte. Le impone un compito didattico o morale. Ebbene, vi è da considerare che i capolavori non nascono per illustrare un programma: nascono perché qualcuno ha avuto una visione e l’ha perseguita contro la convenienza, talvolta contro il proprio tempo. La ricaduta civile è una conseguenza non programmabile, non un obiettivo da spuntare su un formulario.

Anche il territorio beneficia della libertà. Quando gallerie, collezionisti e artisti scelgono un luogo e lo mettono in relazione con le opere, nascono percorsi inediti che attirano persone e idee. È sussidiarietà concreta: oneri e responsabilità senza garanzie pubbliche. E ciò prospetta che le città che prosperano sono quelle che riducono gli ostacoli, non quelle che moltiplicano i regolamenti. Dove la burocrazia arretra, l’iniziativa avanza.

A qualcuno sembrerà un discorso duro. Ma cosa è più duro: lasciare che molti provino, falliscano e riescano con i propri mezzi; oppure addestrare tutti alla dipendenza, promettendo sovvenzioni che trasformano l’energia creativa in attesa di graduatorie? Nel primo caso si accumulano capitale umano, reputazione, memoria; nel secondo si accumulano scartoffie. L’arte non è un diritto esigibile verso terzi: è una possibilità che si apre quando le libertà concrete sono garantite e le responsabilità personali sono chiare.

C’è un punto che regge tutto il resto: la protezione della proprietà, materiale e immateriale. Senza tutela dei luoghi espositivi, senza sicurezza per gli archivi, senza certezza dei contratti, il sistema si disgrega. Chi investe in un’opera o in una mostra deve confidare che il bene non sarà sottratto dalla violenza o dall’arbitrio, che i patti saranno onorati e che i tempi della giustizia non divoreranno il senso stesso dell’impresa. Dove queste garanzie mancano non si produce inclusione: si produce deserto.

Alla luce di quanto evidenziato, si può pertanto sostenere che, se residua un compito pubblico, esso corrisponde al più sobrio di tutti: proteggere le cornici in cui la libertà opera. Applicare le leggi senza arbitri discrezionali, difendere la proprietà, risolvere rapidamente le controversie, punire chi distrugge o occupa, assicurare che i contratti siano rispettati. E poi farsi da parte. Chi crea, chi espone, chi acquista e chi visita farà il resto, meglio di qualunque cabina di regia. L’arte non chiede privilegi: chiede di non essere intralciata e di poter incontrare chi desidera sostenerla.

Settembre, con i suoi cataloghi e i suoi allestimenti, non è pertanto una mera parata di cifre. È la dimostrazione che una società cresce quando non ha paura delle scelte private. Le opere non chiedono permesso: vogliono circolare, essere viste, giudicate, amate o respinte. Questo accade soltanto dove il potere rinuncia alla pretesa di decidere per tutti. Là, e solo là, l’arte continua a fare il suo mestiere: sorprendere, inquietare, cambiare lo sguardo di chi la incontra. Conviene dirlo all’inizio di stagione, ora.

Aggiornato il 08 settembre 2025 alle ore 10:27