Un nuovo film sulla possessione diabolica

Il film diretto da David Midell e uscito pochi giorni fa si aggiunge alla lista delle tante pellicole che trattano del delicato tema della possessione diabolica. La premessa a questa riflessione potrebbe essere che di film sugli esorcismi già ne sono usciti tanti. Un’altra premessa è che – di fondo – hanno trame ben intuibili e questo lascia poco o nulla spazio a prospettive di originalità o innovazione. C’è sempre una persona – in genere ragazze o giovani donne – che viene presentata come “problematica”, con alle spalle decine di controlli psichiatrici e visite specialistiche. Nel film, a un certo punto, si farà sempre riferimento a qualche trauma di natura spirituale avvenuto nell’infanzia, come l’aver assistito a riti satanici o, come nel caso di questo film, aver avuto parenti attivi nella magia nera. Ma questa volta lo scenario cambia. Il film è ispirato alla reale e drammatica condizione di Emma Schmidt (nata Anna Ecklund), che dall’agosto al dicembre del 1928 sostenne numerose sedute di esorcismo – guidate dal frate cappuccino Theophilus Riesinger (interpretato, in maniera un po’ caricaturale, da Al Pacino), concluse poi con la (presunta) liberazione dai demoni che avevano preso dimora nel suo corpo e nella sua anima.

Insieme al frate prende parte agli esorcismi anche un altro sacerdote, Joseph Steiger (interpretato da Dan Stevens), che ha avuto il compito di appuntare ogni momento delle procedure e trascrivere i dialoghi e ogni cosa avvenuta nelle sessioni di liberazione. Grazie a questo diario, possiamo ritenere quello di Emma Schimidt l’esorcismo meglio descritto e approfondito della storia recente. Nel film di Midell, che sembra volare via – troppo veloce, con montaggi quasi elementari – c’è spazio per due tempi: quello dell’oscurità, della notte, dove avvengono i rituali (si va dal primo, che non è nient’altro che una preghiera, al settimo, che si conclude con la liberazione) e quello del giorno, dove si alternano dialoghi – a volte scontati, a volte ben più profondi e introspettivi – tra i due religiosi, e dove si assiste alla vita quotidiana della piccola comunità dove è ospitata, ovviamente in segreto, la posseduta. Che io ricordi, è la prima volta che delle suore hanno un ruolo importante e attivo in un film sugli esorcismi. Padre Teophilus crea il suo gruppo anche attingendo ad alcune sorelle della comunità, sotto l’occhio di una madre superiora inizialmente molto preoccupata e scettica. Queste giovani religiose sono tra l’altro vittime fisiche – oltre che spirituali – della posseduta: ad una strappa una ciocca di capelli con tanto di cuoio capelluto, ad un’altra lacera una mano. È il film sugli esorcismi più femminile mai realizzato, e in questo però non vedo alcuna componente politically correct. Il regista stravolge la consueta prassi del ruolo negativo dato ad una donna, aggiungendo a questo tante presenze femminili positive, orientante alla trascendenza, alla preghiera e alla conoscenza di terre spiritualmente ignote.

Di donne ce ne sono tante, sin troppe, in quella straordinaria serie di pellicole dell’universo The Conjuring, che però non ha niente a che vedere come L’esorcismo di Emma Schmidt - The Ritual. In The Nun o in The Conjuring la presenza del male si manifesta negli oggetti, nei luoghi, nelle case, e per ultimo passa alle persone: qui invece è il contrario. Il male arriva e ha le sembianze di una giovane donna, che nei momenti di riposo demoniaco è addirittura molto legata all’anziano esorcista – che già aveva conosciuto anni prima – che nel film fa con lei passeggiate intorno alla chiesa e scambia riflessioni interessanti. Poi il male passa da Emma (o Mina, o Giuda, questi i nomi di alcuni suoi ospiti) alla struttura religiosa, con una scena che vede la stanza della ragazza completamente insanguinata e devastata, e poi agli stessi partecipanti all’esorcismo. Nessuno di loro sarà a sua volta posseduto: si presenta però la possibilità, qui più una certezza, che il trovarsi in contatto con persone possedute cambi anche noi stessi, ponendoci in una situazione di stallo spirituale, dove vediamo il mondo e la stessa fede con gli occhi del dubbio, e dove possiamo anche illuderci che in realtà il bene abbia già perso. È questa la cosa che più emerge dal film, e che lo fa apprezzare – al di là dei limiti estetici e della poca cura di alcune ambientazioni. Mai perdere la speranza.

A turno, tutti, dal giovane sacerdote alla madre superiora, si trovano a confrontarsi con lo smarrimento spirituale, con la temporanea ma dolorosa perdita del mistero, e quindi della fede. Ogni rituale conferma però in loro la necessità di non fermarsi, perché ogni pausa permetterebbe al nemico di recuperare le forze per tornare all’attacco ancora più forte. E’ un film da vedere – al di là delle proprie convinzioni religiose – perché riflette sul rapporto tra bene e male senza far sembrare uno meglio dell’altro: piuttosto, sembra che siano entrambi necessari. Sopravvivere ad un dolore significa superare la presenza del male in noi, senza che questo prevalga e che trasformi la nostra esistenza in una continua ricerca di vie di fuga. C’è però da dire che l’assenza di chiodi sputati o altre esasperazioni scenografiche rende il film davvero poco horror, ma questo è un bene. Chi si aspetta la tensione continua di tanti altri film sappia che qui troverà più una tensione spirituale, che non fisica. E questo basta per consigliare la pellicola.

Aggiornato il 04 giugno 2025 alle ore 10:49