
Lo scorso 7 aprile lo stimato amico e professore Claudio Amicantonio, in un denso ed elaborato articolo pubblicato su queste colonne, ha sviluppato una ricca e sagace critica alle osservazioni in precedenza sintetizzate dai sottoscritti in merito ai rapporti tra Ai e realismo gnoseologico. Il tema è senza dubbio lungo e complesso, specialmente per essere affrontato con le dovute accortezze di sintesi che si addicono ad una testata on line, ma si possono comunque tratteggiare le linee generali in grado di inquadrare il problema.
Le obiezioni acute e precise dell’Amicantonio si fondano sostanzialmente su due punti principali: in primo luogo, lo sviluppo scientifico e il progresso tecnologico non possono essere considerati finiti e limitati all’interno del ristretto arco di tempo dell’attualità, così che se adesso le macchine non sono dotate di coscienza, nulla impedisce che possano esserlo in un prossimo futuro; in secondo luogo, il realismo gnoseologico di matrice tomistica non è idoneo ai fini della definizione di una critica gnoseologica nei confronti dell’Ai poiché il pensiero di San Tommaso d’Aquino non riesce a colmare il divario tra la conoscenza del particolare e l’intellegibilità degli universali, cioè dei principi primi.
Accogliendo con sincera gratitudine i sottili rilievi mossi dall’Amicantonio, non possiamo esimerci dall’onere di replicare, a tal fine dovendo però distinguere i temi, cioè da un lato i problemi legati al tema dell’Ai, e, dall’altro lato, il problema della gnoseologia tomista. Bisogna, tuttavia, prioritariamente prendere le mosse proprio dal secondo argomento critico suggerito dall’Amicantonio, poiché risulta essere di ordine metodologico, e quindi preliminare, rispetto al primo che attiene al piano del merito. La gnoseologia tomista, sebbene distingua l’intellectus dalla ratio, non presuppone una gnoseologia dualistica come quella di matrice cartesiana, bensì monistica, sia nella causa che negli esiti, come del resto tanto nei mezzi quanto nel fine. La conoscenza della realtà per Tommaso è impossibile senza la consapevolezza che essa conduce dall’essere del conoscente all’essere del conosciuto; è cioè una gnoseologia che presuppone sempre e comunque una ontologia: tale via è percorsa sulle gambe dell’intelletto che accede ai principi primi (attraverso le tre operazioni dell’astrazione, del giudizio e del ragionamento) e della ragione (tramite le deduzioni delle conclusioni che dai principi primi si traggono) che, insieme, conducono il conoscente a conoscere la realtà delle cose che ci circondano.
Cartesio ha invece capovolto il realismo gnoseologico in soggettivismo gnoseologico, creando quel divario che ancora oggi affligge la gnoseologia in genere e quella scientifica in particolare, specialmente dopo gli ulteriori colpi inferti dalla cosiddetta “fallacia naturalistica” di David Hume e da tutta la tradizione post-kantiana di matrice anti-metafisica. Il realismo gnoseologico tomista, invece, come, tra gli altri, hanno osservato Etienne Gilson, Antonio Livi, Jesus Villagrasa, è proprio quello che evita la cesura tra la realtà e il soggetto che la conosce ed evita all’un tempo le derive contro il soggettivismo noetico, e quindi anche etico, che invece così patologicamente affliggono il pensiero post-metafisico odierno. Anche l’insistenza di Tommaso sulla natura dell’intelletto contro le prospettazioni proposte dagli averroisti – che in sostanza intendevano elidere la corrispondenza tra essere del conoscente ed essere del conosciuto attraverso un intelletto unico per tutti, ma sostanzialmente inesprimibile e negatore della libertà personale – della sua epoca è sostanzialmente una forma di anticipazione di quanto qui stiamo discutendo con il professore Amicantonio.
Ciò che Amicantonio ritiene essere una falla nel sistema gnoseologico tomista – cioè la mancata dimostrazione di come un intelletto finito e particolare quale è quello umano riesca ad accedere ai principi primi – è invece ciò che Tommaso si è ben premurato di precisare proprio assumendo il realismo quale via elettiva di conoscenza razionale della realtà senza gli infingimenti idealistici da un lato e senza i costruttivismi o i decostruzionismi soggettivistici dall’altro lato. Ecco perché Tommaso distingue correttamente – anticipando in questo in un certo senso la modernità del cuore della critica popperiana agli inesatti paradigmi epistemologici del convenzionalismo, del nominalismo e del verificazionismo ancora oggi biasimevolmente diffusi proprio nel mondo scientifico – tra intelletto speculativo e intelletto pratico, distinzione dinnanzi alla quale lo stesso Immanuel Kant ha dovuto capitolare riconoscendone l’inevitabilità e la cogenza.
Proprio oggi, e proprio dinnanzi allo sviluppo dell’Ai, dunque, il realismo gnoseologico di matrice tomistica non può che diventare utile e necessario strumento di conoscenza e di critica di quanto accade dinnanzi ai nostri occhi, sol che non ci si chiuda pregiudizialmente all’appello dell’essere delle cose e del mondo che ci stanno intorno e di cui la gnoseologia realista tomista costituisce sollecita risposta. Tutto ciò considerato sul piano metodologico, occorre adesso tornare, seppur brevemente, sul punctum dolens di merito sollevato dall’Amicantonio.
Lungi dall’essere un problema di prospettazione o di scelta tra Ai forte e Ai debole, l’idea che una macchina possa essere dotata di coscienza è alquanto dubbia e contestabile, non tanto perché il progresso tecnico-scientifico oggi non lo consente mentre in un tempo futuro lo consentirà, quanto soprattutto perché non bisogna equivocare la coscienza umana con quella eventualmente artificiale di cui una macchina potesse essere munita in un futuro non lontano. La coscienza artificiale, infatti, qualora fosse messa a punto come ipotizzato dall’Amicantonio, e non solo da quest’ultimo, non sarebbe autentica coscienza e soprattutto sarebbe, appunto, artificiale, cioè introdotta tecnicamente dall’uomo nella macchina. La coscienza artificiale non sarebbe realmente una coscienza poiché essa sarebbe soltanto un codice o un algoritmo ulteriore, probabilmente il più complesso e il più sofisticato, che consentirebbe al più una maggiore e migliore autonomia della macchina che ne fosse provvista, ma che non sarebbe comunque una “copia” della coscienza umana e naturale la quale, peraltro, non è né un codice né un algoritmo.
La coscienza umana, infatti, non soltanto non è una mera aggregazione di stringhe numeriche più o meno complesse come può essere un algoritmo, ma è soprattutto ciò che rende umano l’uomo, cioè il suo momento fondazionale di ordine metafisico, ovvero quell’elemento impalpabile, incommensurabile, insostituibile, irriducibile, non replicabile, eppure essenziale. La coscienza umana, inoltre, non è soltanto una somma di conoscenza o di percezioni, come, invece potrebbe essere quella di una macchina, ma è qualcosa di diverso e di più. La coscienza artificiale consentirebbe alla macchina, probabilmente, di avere una consapevolezza attiva del mondo circostante, e forse perfino di se stessa (anche se bisogna capire entro quali limiti), ma non consentirebbe alla macchina né il giudizio critico sul mondo circostante e su se stessa, né la capacità del cosiddetto atto creativo, cioè la trazione ex nihilo di qualcosa che prima non esiste e un momento dopo viene in essere.
Fino ad ora, infatti, le cosiddette opere d’arte prodotte dall’Intelligenza artificiale sono soltanto l’emulazione di ciò che la stessa Ai ha potuto reperire e rielaborare in rete, senza essere in grado di creare qualcosa di artisticamente e realmente nuovo. La coscienza umana, infatti, come ha giustamente osservato Romano Guardini, è “la porta attraverso la quale l’eterno entra nel tempo”, ed è l’organo – aggiungerebbe John Henry Newman – con cui l’essere umano può distinguere il bene dal male. La stessa coscienza umana, peraltro, non si può fare coincidere né con la conoscenza, cioè con la quantità di dati che un certo essere umano – o una macchina – acquisisce nel corso della propria vita e della propria esperienza, né con la capacità conoscitiva, cioè con le facoltà funzionalmente espletabili ai fini dell’acquisizione dei suddetti dati.
La questione è ovviamente ben più complessa e articolata di come in questa sede si è tentato di sintetizzare, ma tutte le energie spese in tal senso trovano un comune punto di convergenza, cioè da un lato dimostrare che la coscienza non può essere piegata e spiegata dai formalismi matematici, per quanto sofisticati ed elaborati essi siano, e, dall’altro lato che come una macchina non potrà mai essere considerata un uomo, così, soprattutto e in conclusione, un uomo non potrà mai essere considerato una macchina proprio per la cifra differenziante della coscienza che oggi viene negata dai vari riduzionismi scientistici e anti-metafisici tanto di moda nel mondo occidentale.
Aggiornato il 10 aprile 2025 alle ore 13:20