Lo studio di Marino Micich
Nella storia d’Italia del secolo scorso, le vicende del confine orientale tra il 1943 e il 1954, che ebbero poi l’epilogo nel 1975 con il Trattato di Osimo, sono tra le più intricate per la dinamica della lotta politico-militare, le più dolorose per i crimini perpetrati contro l’umanità e anche le più complesse sul piano storiografico per il protrarsi dell’irrompere delle passioni e delle convenienze politiche, che hanno reso difficile una ricostruzione e scrittura di quel particolare momento storico attraverso un freddo processo razionale fondato sull’utilizzo e il confronto di fonti, per molto tempo non facilmente reperibili. Su tutta questa ingarbugliata e terribile tragedia giunge a fare chiarezza l’ultimo lavoro di Marino Micich, direttore dell’Archivio del Museo storico di Fiume: Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954 di Marino Micich (Mursia 2025, 198 pagine, 15 euro). È un contributo importante, fondato su un’approfondita ricerca d’archivio, che sgombra la materia dai tanti pregiudizi e dalle molteplici resistenze ideologiche, che per molto tempo hanno inquinato e bloccato la ricerca storica.
Il Partito comunista italiano (Pci) ebbe un ruolo di primo piano nello svolgimento di quegli avvenimenti: fu complice della politica espansionistica jugoslava e, proprio perché fortemente compromesso, operò anche per intorbidire le acque, rendendo più difficile la ricostruzione della verità storica. Solo dopo il crollo del comunismo, la morte di Josip Broz Tito, la dissoluzione della Jugoslavia e la fine dello stesso Pci, gli esponenti comunisti italiani iniziarono, sommessamente, ad ammettere le responsabilità di Palmiro Togliatti. È un fatto che Marino Micich evidenzia bene riportando una dichiarazione di Luciano Violante, rilasciata nel 2004 al Giornale, in occasione dell’istituzione del “Giorno del ricordo”: “Il Partito comunista italiano sbagliò a tacere sull’Istria. C’è una grande responsabilità del Pci per il silenzio sull’esodo dall’Istria, da Fiume, dalle coste dalmate: ciò accadde perché il confine ideologico è prevalso su quello geografico”. L’espressione usata da Violante (“il confine ideologico è prevalso su quello geografico”) è molto efficace perché, come è ormai acclarato, due furono le resistenze: quella che guardava verso il mondo libero e quella che aveva come faro il mondo comunista.
La pulsione ideologica dei comunisti italiani di fare dell’Italia un Paese satellite dell’Urss, nel confine orientale, era stata sostituita dal disegno di assecondare la logica espansionistica di Tito, che avrebbe voluto portare i confini della Jugoslavia il più possibile verso Ovest fino e oltre Trieste. E, per realizzare questo programma, il Pci decise di rompere l’unità antifascista nel Cln di Trieste per portare le sue formazioni partigiane a operare congiuntamente a quelle titine con l’inquadramento della formazione partigiana “Garibaldi Natisone” nell’esercito di liberazione di un’altra nazione. È un fatto che spiega una serie di comportamenti dei comunisti italiani: i crimini di inaudita gravità come l’eccidio di Porzûs e la complicità nello sterminio di tanti italiani, il successivo atteggiamento ostile nei confronti degli esodati giuliano-dalmati e, infine, il negazionismo sul piano storiografico. Il lavoro di Marino Micich ha il merito di mettere a nudo, documenti alla mano, il ruolo antitaliano del Pci durante e dopo la guerra partigiana lungo il confine orientale. In una prima fase la posizione di Togliatti era completamente appiattita su quella di Tito. Sono significative le parole di Togliatti in una lettera indirizzata a Vincenzo Bianco, “incaricato di stipulare accordi separati con i comunisti sloveni e croati” in spregio del Clnai: “Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che dobbiamo in tutti i modi favorire, l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito. Questo, infatti, significa che in questa regione non vi sarà né un’occupazione inglese, né una restaurazione reazionaria italiana. Il nostro partito deve partecipare attivamente, collaborando coi compagni jugoslavi nel modo più stretto alla organizzazione di un potere popolare in tutte le regioni liberate dalle truppe di Tito”.
Nella logica politica di Togliatti gli interessi nazionali italiani dovevano coincidere con quelli dell’internazionalismo comunista, che aveva come stella polare Iosif Stalin. Nel 1948, ormai in uno scenario di Guerra fredda, dopo la rottura nel Cominform tra Stalin e Tito, il Pci, che era di stretta osservanza stalinista, mutò radicalmente posizione nei confronti della Jugoslavia, che da quel momento considerò, secondo l’ortodossia filosovietica, uno Stato dominato dal titofascismo. Paradossalmente, questo importante avvenimento non incise minimamente sulla situazione giuliano-dalmata. Mentre il Pci non cambiò la sua versione sulle vicende del confine orientale, perché era ormai troppo compromesso, i partiti di Governo – siccome la nuova posizione antistalinista di Tito, che collocava la Jugoslavia tra i Paesi non allineati, facilitava le relazioni con le nazioni afferenti alla Nato – con visione miope, e a volte anche gretta, preferirono blandire Tito piuttosto che avversarlo e così si prolungò ancora per molti anni il silenzio sulla tragedia giuliano-dalmata. Si dovrà attendere il 2004, grazie all’iniziativa del Governo Berlusconi e della sua maggioranza parlamentare, per riaprire una finestra almeno sulla verità storica dei fatti avvenuti in quell’area adriatica tra il 1943 e il 1954.
(*) Togliatti, Tito e la Venezia Giulia. La guerra, le foibe, l’esodo 1943-1954 di Marino Micich, Mursia 2025, 198 pagine, 15 euro
Aggiornato il 12 marzo 2025 alle ore 11:33