“Diamanti”: femmina è meglio!

Diamanti: l’ultimo film di Ferzan Özpetek, che sarà nelle sale italiane dal 19 dicembre, è un’opera che interroga tutti gli spettatori del mondo: praticamente uno scavo a cielo aperto nella coscienza dell’umanità, che parla e fa parlare le donne. Per la precisione, tutte quelle che, in qualità di attrici, hanno avuto modo di sperimentare il genio del regista turco-italiano e che, all’inizio del film, siedono a tavola con Özpetek discutendo dei ruoli, mentre una Mara Venier sempre in fuga è la vivandiera del gruppo in questa affascinante storia (quasi tutta) al femminile. Le sorelle Canova, Alberta (Luisa Raineri) e Gabriella (Jasmine Trinca) sono le protagoniste (per modo di dire, perché qui, davvero, c’è un tale allineamento di stelle, che citarne solo alcune è un vero e proprio delitto), comproprietarie negli anni Settanta di una sartoria artigianale, dove si confezionano artisticamente, a partire dai bozzetti tirati a mano, gli abiti di scena per il cinema e il teatro. I diversi ruoli maschili e femminili ruotano sui cardini delle figure simboliche di Alberta e Gabriella, apparentemente dura e fredda come il marmo la prima, mentre l’altra espone pubblicamente e senza riserve i suoi luoghi interni, emotivi ed empatici, mostrando i nervi scoperti come un santo crocefisso, che usa l’alcool al posto dell’acqua santa. Come tante finestre che si aprono sul cortile, le singole storie delle sartine si diramano a raggiera dalla sala cucito, incuneandosi furtivamente all’interno di scenari privati, tutti tremolanti come lucine di Natale nel loro dolore individuale. Un luogo scenico questo di Diamanti, dove a tratti il volto reale ed enigmatico di Özpetek ci interroga come una sfinge al termine delle scene più emozionanti.

Ed è così che l’intera società occidentale coincide con uno spazio termale in cui si alternano vapori caldi e correnti gelide, che vanno dalle violenze domestiche, contrapposte all’amore coniugale fermo e discreto che sa consolare il trauma insuperabile della perdita; al sempre più difficile rapporto genitori-figli, in cui lui contrappone la sua ordinaria tranquillità all’apprensività di lei. Perché è vero poi che le donne hanno la natura stessa del diamante, durissimo e al contempo fragilissimo, bene raro e prezioso, in cui la luce incidente viene scomposta nei colori iridati della passione e del dolore. Ma Diamanti è anche una metafisica degli spazi angusti, al cui interno si operano delle mutazioni sorprendenti: la stanza dei bottoni dove in segreto si nasconde un bambino che non ha i mezzi per andare a scuola; uno stretto vestibolo dove trova rifugio una giovane barricadiera ricercata dalla polizia; una stanza dove un adolescente sperimenta un suo stato catatonico, perché non riesce a stare al mondo, né a comunicare con i propri genitori o con i suoi pari; la sala cucito, dove in spazi angusti si compongono miracolosamente e armoniosamente tante figure di lavoratrici, madri, mogli, libere o separate, sempre solidali tra di loro e pronte a scambiarsi l’anima se serve. E, come per magia, il bimbo diviene un centro di affetti in cui converge l’istinto materno delle colleghe della madre (soprattutto della vivandiera, che si preoccupa per la sua alimentazione), mentre la giovane, nipote di una lavoratrice anziana (Lunetta Savino), riceve il suo battesimo creativo, manipolando nottetempo nastri e merletti per dare corpo alle ombre della sua fervida fantasia.

La storia si popola di personaggi che sono la contro immagine caricaturale di chi sta dietro le quinte o alla macchina da presa, come un problematico regista (Stefano Accorsi), furioso quanto scostumato, che non si fa scrupoli di demolire la fatica delle sartine e il lavoro della sua geniale costumista (Vanessa Scalera) Premio Oscar, colpevole di non avere realizzato alla lettera il disegno originale dei costumi. Ma tutte-i sono un po’santi, un po’ colpevoli, come accadrebbe in un gioco di domati-domatori, in cui il circo dell’esistenza piange con i pagliacci e ride con i Mangiafuoco. Le donne in camice, giovani e non, hanno una vitalità prorompente, sanno gustare cibi e giovani uomini che hanno la sventura di capitare per caso in quel recinto di coccodrille. Poi, c’è l’uomo che manca all’appuntamento della vita con la sua giovane e bellissima amante, perché il sacrificio e la forza del destino lo chiamano a un compito ben più alto e nobile. Così come un monile che non vale nulla è la scusa per dare una mano a una ragazza madre che si trova in un grande bisogno e non sa come tirare avanti. Infine, l’apoteosi del capolavoro di gruppo, dove una a una le sartine si defilano dalla tavola dei festeggiamenti in occasione dell’anniversario dell’azienda, per ricucire un grave torto e riparare a una delusione immeritata. Così, la magia dello stare assieme tra donne crea il miracolo estetico al termine di una notte di lavoro, offerta come un ostensorio per il perseguimento di un fine nobile. E, di tanto in tanto, in coda alle scene topiche, appare il volto emblematico di Özpetek che gioca al ruolo di se stesso per dire: “Avete visto l’effetto che fa” questa mia scena che, come tutte le altre, ha una scaturigine naturale, in cui il set crea il copione, per cui attori e personaggi non sono mai passivi, in base a una fusione armoniosa tra cinema e spettacolo dal vivo.

Voto 8

Aggiornato il 13 dicembre 2024 alle ore 13:14