Lear, un re dalla corona mutante, prima d’oro, poi di cartone e infine di spine. Vecchio e pazzo, ma mai santo. No, questo proprio no. Le sue maledizioni nei confronti dell’adorata figlia minore e delle due figlie maggiori, in cui l’insulto viene indirizzato con particolare accanimento sulla primogenita, fanno ancora tremare le pareti della Casa delle fate. Ma perché mai William Shakespeare ha voluto farla così difficile e intricata, la storia di questo poveruomo che passa dagli abiti di broccato e oro, alle vesti lacere di uno straccione senza patria, affetti e famiglia? Il Maestro Gabriele Lavia ci offre una sua speciale interpretazione del dramma shakespeariano con lo spettacolo omonimo, che va in scena al Teatro Argentina fino al 22 dicembre. Com’è giusto che sia, tutto è precario e rivestito di stracci nel mondo di Lear: lo scenario, in primo luogo. Grigio, ossificato e lacero, come il dramma incombente. Così è grigia e proiettata su di un grande straccio, che fa da schermo cinematografico, la mappa del suo regno uno e trino, in cui la geografia è solo un panorama di nuvole, simbolo transeunte del potere e della potestà umani. L’ingresso collettivo degli attori, com’è giusto che sia, li vede vestiti in abiti borghesi (tutti nasciamo in fondo nudi e pochissimi con la camicia), per poi recuperare le vesti regali e ricche da enormi cassapanche multifunzione, collocate sul palcoscenico. Ma, quali simboli trascendentali si nascondono dietro le tragiche e feroci figure di Goneril e Regan?
Cioè, come si coniuga il Potere al femminile? Si direbbe allo stesso modo identico con cui lo si fa con il suo corrispondente maschile, nelle persone dannate del Duca di Cornovaglia, marito di Regan, e di Edmund, figlio illegittimo del conte di Gloucester cui il Duca strapperà gli occhi dalle orbite. E lo farà per vendicarsi del suo tradimento, ritenendolo responsabile di aver complottato con il re di Francia, quest’ultimo marito sfortunato di Cordelia, di cui sposa la virtù e ignora la condanna di Lear che la scaccia dal suo regno privandola della dote. La Francia cattolica, quindi, eticamente superiore a quella protestante? Vero è, in generale, che questo potere asessuato si suddivide al suo interno nelle due componenti antisimmetriche (l’una opposta e negativa dell’altra) del bene del male. Appartengono al primo insieme (il Regno della bontà) Cordelia; Edgar; il Duca di Albany, marito di Goneril; il duca di Kent; il conte di Gloucester. Mentre popolano il secondo, il Regno della malvagità, Goneril; Regan e suo marito duca di Cornovaglia; Edmund il traditore che tresca con le due perfide sorelle, tessendo la sua infame trama di potere. Sarà lui a causare la cecità di suo padre (cui salverà la vita il fratello Edgar, che si finge pazzo e straccione), fino a rendersi responsabile della morte per impiccagione di Cordelia, rinchiusa per ordine suo nelle prigioni della Torre assieme a suo padre Lear.
E chi tiene teso il tenue filo tra saggezza e pazzia, in tutto questo gioco al massacro della verità, dell’amore paterno e filiale, dell’amicizia e della lealtà al sovrano, autocastratosi nella sua ripartizione folle e farsesca del potere? Ma il fool shakespeariano, ovviamente. Vestito con l’occasione come un pagliaccio da circo e dotato dell’inseparabile organetto, che chiama Lear vecchietto e nonnino, mentre obbedisce ai suoi comandi, suonando a singhiozzo il piano, tra grida di interruzione e di prosecuzione di Lear; o nascondendosi in un angolo buio dietro lo stesso pianoforte per sfuggire all’ira delle figlie malvagie di Lear e dei loro servi. Insomma, che cos’è simbolicamente la vita di questo sfortunato re, che cammina pazzo sui carboni ardenti del tradimento, del sangue e degli intrighi di palazzo, lasciando che il fool rappresenti la scissione tragica della sua personalità di uomo e di ex regnante, in cui il buffone creduto pazzo è dotato invece del senno che manca ormai a Lear? Chi possiede la verità e incede sano e incolume nella tempesta, che è monito e condanna degli dei per quest’umanità perduta, se non coloro che sono vestiti di stracci (re compreso e solo in questa facies denudata assolto!), ridotti a mendicare il pane?
E che ci fanno cento cavalieri di scorta a Lear, al momento del loro ingresso nella casa ostile, in cui lo stesso re è considerato un ospite sgradito? Dov’è, quindi, la casa degli affetti e del rispetto che si deve a un padre, se non nel cuore dei propri figli? E che cosa accade, come narra Shakespeare, quando i giovani intendono uccidere (non solo simbolicamente e freudianamente) i propri padri, spogliandoli anzitempo dei loro averi e dello status sociale di cui godono? È giusto che quei padri, a questo punto, combattano per il mantenimento del proprio potere, o debbono autoesiliarsi, come farebbe un capo tribù degli indiani d’America, improntando in totale solitudine il passo verso la Montagna delle aquile? In fondo, denudarsi del potere cedendo agli have-not le proprie ricchezze e svestendosi dello status sociale rivestito, così com’è predicato nel Nuovo Testamento, non è, forse, l’unico modo per conquistarsi il favore degli dei, anziché dei mortali, benché figli? Capaci e ancor più pazzi di Lear, questi dei, di provocare il giudizio di Dio, in cui la spada del fratello ferirà a morte il fratellastro traditore; o di permettere troppo tardi alla mano malferma di Re Lear di uccidere il servo che ha appena impiccato Cordelia, lasciandolo poi solo da povero vecchio a presentare, una volta liberato, le spoglie della figlia al resto del mondo attonito, tenendo in braccio il suo esile corpo senza vita. Lear è il fool, ma il fool non è Lear. Perfetto per un rompicapo.
(*) Le foto di Tommaso Le Pera ritraggono Gabriele Lavia e il cast di Re Lear.
Aggiornato il 13 dicembre 2024 alle ore 11:17