Può il teatro, con la sua magica arte di maestro narratore del bene e del male, del perfetto e dell’imperfetto, del sogno e della realtà, dare a un romanzo visionario, come Il cavaliere inesistente di Italo Calvino, una vera personalità? Ebbene, risponde affermativamente a questa sfida ai limiti del fantastico lo spettacolo omonimo, in scena fino al primo dicembre al Teatro India di Roma, per la brillante regia di Tommaso Capodanno, e l’esecuzione eccellente di quattro giovani attrici-cantanti, Francesca Astrei, Maria Chiara Bisceglia, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane. Scenografia essenziale, come il gigantesco Puppet-Cavaliere Agilulfo, con la sua armatura di un bianco immacolato manovrato da corpo umano; e un campo di Agramante popolato di spighe di grano. Arredato spartanamente quanto basta da sacchi bianchi da seduta morbida e da elementi di un Lego in compensato, da ricombinare per divenire trono, spalto, divano da gineceo.
La scena, invece, è articolata e disarticolata senza sosta da autentiche Erinni, che fanno delle virtù vocali e della mimica un possente strumento di comunicazione, in cui letteralmente si esalta la drammaturgia comicizzante di Italo Calvino e la sua visione del futuro. Come la ribellione dei popoli oppressi; la vittoria degli umili sugli oppressori; il succedersi del bene e del male; le imprese eroiche fondate su di un nulla onirico, per cui si fa più importante degli squartamenti la gara di insulti tra mori e cristiani, così come tradotti da coraggiosi mediatori multilingue e pluridialetto, veloci sulle loro montature leggere per correre da una parte all’altra del campo.
E, poi, c’è quel re cristiano, Carlo Magno, che sembra un capo dipartimento del Ministero della Guerra, in cui i suoi generali paladini operano come perfetti burocrati, all’interno dell’organizzazione e della preparazione dello scontro armato, che poi è solo un episodio della vita quotidiana, fatta di intendenza, di personale indisciplinato e lavativo (servi, stallieri, cuochi) da organizzare ai fini del risultato bellico. Bravissime le quattro interpreti, sempre intelligenti e travolgenti, a dare voce, corpo, postura ed espressione somatica ai personaggi fantasmatici del romanzo, e a tutta la fauna umana che lo contraddistingue, e che un po’ si intorcina come le budella squartate di cavalli e cavalieri che qualcuno dovrà pur seppellire. E non poteva mancare il giullare, Gurdulù/Calvino, privo di “individualità di coscienza”, così come il suo Cavaliere Inesistente di cui è scudiero è privo di “individualità fisica”. Ma mentre il primo si fa universo, volendo essere “in”, “e” al contempo tutte le cose create (anatra e pastorella, rana e stagno, mare e pesce), l’altro gonfia l’armatura solo del proprio Ego orgoglioso di cavaliere e paladino del re dei Franchi. In lui, cioè, si rispecchia la vanità di chi fa coincidere il bene con l’illusione di farlo, traendo per tempo dalle mani dei suoi violentatori le virtù di una donzella illibata (che poi, tanto contenta non è di essere lasciata tale, almeno al secondo tentativo riuscito di salvarla, allo scoccare dei suoi trentatré anni!), o sconfiggendo un drago che terrorizza il solito villaggio di contadini creduloni.
Poi, c’è l’amore nelle sue più perfette confusioni: quello carnale ma simbolico di Priscilla la castellana, che ha il suo godimento malgrado Agilulfo resti chiuso (si fa per dire) nella sua corazza. Segue a ruota l’amore carnale, da mantide religiosa, che trita nel suo letto guerrieri e cavalieri, della bella amazzone Bradamante, di cui è innamorato Rambaldo, il figlio collettivo dei Cavalieri del Santo Graal. I sacri difensori della cristianità che non uccidono, né stuprano, né trucidano, né fanno razzie in quanto buoni cristiani votati alla castità, ma che lo lasciano fare al loro duale del Graal, che usa meramente il loro corpo per attuare le sue volontà. Rambaldo è un giovane cavaliere che vendica la morte del suo nobile padre semplicemente frantumando gli occhiali del suo assassino, il moro Argalif che, non vedendoci, si infilza da solo nel ferro avversario. C’è infine l’amore simbolico della monaca narrante, chiusa nel convento, che poverina nulla conosce del mondo se non “esattamente” tutte le nefandezze e le piaghe morali e materiali che affliggono il mondo stesso, causate dagli umani che lo popolano.
Così, una volta smontate dall’atroce destino le premesse dell’investitura a Cavalier Paladino del povero Agilulfo, per una serie di equivoci sulla verginità di Sofronia (da lui in tempo sottratta puera e illibata dalle mani dei suoi aguzzini, cosa che costituisce titolo di merito per la nomina a commensale della tavola del re), il protagonista sfortunato della storia di colui che non c’è, ma che invece c’è, si sgonfia come farebbe un palloncino bucato, afflosciandosi dinnanzi al suo re stupito. Ma chi è poi, ‘sta monaca scrittrice? Nientemeno che Bradamante, che un po’ si pente dei suoi bagordi, squartamenti, amoreggiamenti e misfatti, e si rifugia in convento a fare penitenza. Ma, dall’altra, appena ne ha abbastanza della penitenza, se ne scappa via con l’amante di turno (Rambaldo buon ultimo) per tornare alle sue attività secolari di sempre. Bella allegoria dei principi ipocriti della Chiesa di Roma, per cui basta confessare i propri peccati pentendosi a tempo, per poi ricominciare tutto daccapo, aspettando la prossima crisi mistica. Tanto, poi, tutto ti verrà perdonato. Spettacolo decisamente imperdibile.
Aggiornato il 29 novembre 2024 alle ore 12:54