Classicamente #4
La scorsa settimana abbiamo esaminato un melodramma di pregevole fattura ma che, sfortunatamente, non trova spazio nei cartelloni dei teatri ed è stato dimenticato a lungo dal pubblico: La Vestale di Gaspare Spontini. Se facessimo una ricognizione a volo d’uccello del repertorio lirico che ha arricchito l’Ottocento italiano (in buona sostanza, partendo dalle opere buffe di Rossini fino alla stagione verista), noteremmo che nell’appendice del secolo primeggiano i lavori di Giacomo Puccini. Il 29 novembre ricorrerà il centesimo anniversario della sua scomparsa e mi è parso opportuno proporvi un viaggio meta-musicale alla scoperta dei luoghi che hanno plasmato l’interiorità del grande lucchese, stimolandone il processo creativo e offrendo degli spunti essenziali per i suoi drammi.
Le Alpi Apuane furono lo scenario nel quale la famiglia Puccini svolse le sue attività. Cime montuose che si ergono verso il cielo e dalle cui rupi ammantate di ghiaccio sgorgano i torrenti che scendono rapidi verso le vallate della Lucchesia, per poi confluire nel fiume Serchio. Sotto l’ombra del Monte Pisanino si trova Celle, un paese circondato dai boschi di castagni dove nacque l’omonimo trisavolo dell’autore de La Bohème (1712-1781). Rimasto orfano di padre a soli sette anni, il primo Giacomo lasciò le vigne e i frutteti che costellano il villaggio per trasferirsi a Lucca.
L’antichissima repubblica che aveva come capitale la “città delle cento chiese” era celebre per l’architettura romanica, la pittura del Rinascimento e una vasta tradizione musicale. Fu qui che il capostipite della famiglia divenne organista presso la Cattedrale di San Martino e maestro della Cappella Palatina. Suo figlio Antonio (1747-1832) ereditò gli incarichi paterni e avviò il talentuoso primogenito, Domenico (1772-1815), allo studio della composizione e del contrappunto. Le Muse sorrisero con benevolenza anche a Michele (1813-1864), il padre di Puccini junior, che si distinse come violinista e ricoprì il ruolo di direttore del Conservatorio locale.
Le sorti dei Puccini si legarono indissolubilmente alla musica per cinque generazioni. Il corpus pucciniano includeva messe, cantate drammatiche, mottetti e brani strumentali – senza dimenticare il genere prediletto dall’ultimo discendente della famiglia, l’opera. I Puccini ebbero un’importanza seconda solo a quella della dinastia Bach, che annoverò tra i suoi membri decine di compositori. Se in Turingia il termine bach identificava i suonatori ambulanti, a Lucca il cognome Puccini era sinonimo di musicista. Il giovane Giacomo crebbe in un milieu fecondo e intraprese la carriera a cui era predestinato, nonostante le ristrettezze economiche dei genitori. L’ascolto de L’Aida di Giuseppe Verdi a Pisa suscitò in lui il desiderio di consacrare la vita all’illusorio mondo dell’opera e lo spinse a dedicarsi con assiduità alla scrittura musicale.
Torre del Lago ha simboleggiato la massima fonte d’ispirazione per Puccini. Un ambiente pittoresco che riuscì a consolarlo dopo la morte di sua madre Albina e del fratello Michele, stroncato dalla febbre gialla a Rio de Janeiro. Quel locus amoenus che egli definì “gaudio supremo, paradiso, eden”. Il compositore stava affrontando una fase turbolenta, il cosiddetto periodo bohémien: era in attesa della notorietà, cercava di fare fronte alla tragedia del duplice lutto familiare e viveva di espedienti perché temeva di cadere in una condizione di povertà. Nelle ore notturne di quegli anni, Puccini scrutava le sponde del lago e osservava l’incresparsi delle onde per creare l’amore disperato tra Manon Lescaut e il Cavaliere Des Grieux. L’opera su libretto di Luigi Illica conobbe uno straordinario successo e ne decretò la fama come “il genio che l’Italia stava attendendo”. Proprio nel momento del riscatto, Puccini scelse di ripercorrere in musica la sua travagliata gioventù.
La Bohème non è solo la Parigi degli anni Quaranta dell’Ottocento, ma anche la Lucca e la Milano del Puccini studente. Ciminiere che sembrano sfiorare le nubi, il profumo delle frittelle nei giorni festivi; un attico freddo e inospitale che comunica con una stretta rampa di scale, illuminata dal fuoco vacillante di una candela. Queste reminiscenze biografiche prendono corpo nella soffitta degli artisti parigini che, con il loro inconfondibile savoir faire, tentano di sbarcare il lunario cimentandosi in avventure rocambolesche. Anche le ambientazioni esterne risentono del tocco pucciniano. Le vivaci scene al Quartiere Latino ricordano Piazza San Michele nella notte di Santa Croce o in prossimità delle ferie natalizie, mentre i passeggiatori accorrono a vedere le luminarie.
Nella sua elegante dimora collinare Puccini immaginò la villa campestre di Mario Cavaradossi: il pozzo nel giardino, “il passo che sfiorava la rena” e il fruscio delle vesti di Floria Tosca. La Roma papalina si confonde con i luoghi frequentati dal compositore: è come se la sua Città Eterna giacesse sulle verdi alture toscane. Il suono armonioso delle campane nella frazione versiliese di Bargecchia fa da sottofondo al duetto tra Scarpia e Tosca nella conclusione del primo atto, quando il barone porge alla donna la sua mano bagnata nell’acquasanta. I dettagli che rendono La Tosca unica sono stati concepiti a pochi passi dalla casa in cui Puccini visse da ragazzo: le porte sbarrate, le mura austere, le interminabili gallerie della prigione che salgono attraverso la Tomba di Adriano per arrivare sui baluardi di mattone rosso di Castel Sant’Angelo.
Puccini era cosmopolita, viaggiò molto e, sfidando i mezzi dell’epoca, raggiunse con la mente delle atmosfere esotiche. Mentre fissava le distese di magnolie nei pressi del suo amato lago, sognava i ciliegi in fiore sui colli di Nagasaki. Collezionò stampe ukiyoe, pezzi d’artigianato, vasellame e manoscritti di melodie remote; studiò attraverso le prime registrazioni sul grammofono l’intonazione della voce e le forme del teatro kabuki. Il suo eclettismo sbalorditivo gli permise di entrare in contatto con lo spirito più autentico della civiltà giapponese. Così nacque la figura della geisha quindicenne che domina la Madama Butterfly, Cio Cio-San.
L’ultimo capolavoro pucciniano rimasto incompiuto, Turandot, si configura come una fiaba ambientata nel regno della sanguinaria principessa pechinese. Nell’agosto 1920 Puccini fece tappa a Bagni di Lucca per un soggiorno termale e poté ascoltare grazie all’amico Alberto Fassini, già console italiano in Cina, un carillon con temi musicali dall’Estremo Oriente che riaffiorano nella versione definitiva della partitura. Sei anni dopo la morte di Puccini, il regista Giovacchino Forzano volle omaggiare la memoria del compositore ideando il Festival Puccini nella località che fu il suo “gaudio supremo, paradiso, eden”.
Abbiamo inserito un breve filmato in bianco e nero che mostra le uniche immagini in movimento a noi pervenute di Giacomo Puccini. Il compositore passeggia nel giardino della sua residenza a Torre del Lago e si appunta un bocciolo di rosa all’occhiello. Suona il pianoforte e compone, va in giro su un motoscafo, riceve la posta e chiacchiera con gli abitanti del villaggio. Infine, si diverte andando a caccia di anatre. Questo frammento ci mostra come anche i grandi musicisti amassero i piaceri della vita. Buona visione.
(*) Leggi Classicamente 1#, #2, #3
Aggiornato il 28 novembre 2024 alle ore 11:19