Sibelius e Bartók, due patriottismi musicali a confronto

Classicamente #2

Nel primo numero di questa rubrica abbiamo preso in esame lo strumento che, con la sua straordinaria gamma di sfumature, riesce a imitare simultaneamente i suoni degli archi, dei fiati e delle percussioni: il pianoforte. Stavolta lasceremo gli ottantotto tasti consacrati dal genio di Chopin e andremo alla scoperta di due lavori per orchestra sinfonica, il più grande ensemble musicale che esista.

Cosa s’intende per sinfonia? Ripercorrere la nascita di questo genere richiederebbe un’indagine molto dettagliata, quindi ci serviremo della definizione che trova largo uso dal classicismo viennese a oggi: è una composizione orchestrale generalmente costituita da quattro movimenti, ciascuno dei quali presenta, almeno in teoria, la forma tripartita esposizione-sviluppo-ripresa. L’etimologia del termine rimanda a una concezione filosofico-spirituale che trova il proprio fondamento nell’Atene di Pericle (V secolo a.C.).

Analizzando in prima battuta il lemma greco symphonia, possiamo evincere come esso indichi la “consonanza”, la “concordia”, la disposizione armoniosa di elementi omogenei – sia da un punto di vista metaforico, sia nel dominio della musica tout court. Ora eliminiamo il prefisso sym- per andare più in profondità. Il termine phonè denota la voce nella sua accezione primigenia, il suono incorporeo che deriva dalle pulsioni istintuali dell’uomo, prima ancora di scandirsi nella parola che impieghiamo per comunicare. Questa dimensione onirica, sospesa tra il detto e il non detto, tra gli albori della civiltà e il disincanto del mondo moderno, ha ispirato due pionieri dell’etnomusicologia vissuti nel secolo scorso, il finlandese Jean Sibelius (1865-1957) e l’ungherese Bela Bartók (1881-1945).

Le opere di Sibelius e Bartók ruotano attorno a un nodo nevralgico: introdurre nel linguaggio sinfonico la tradizione culturale dei rispettivi Paesi, conferendo una dignità statutaria all’immenso complesso di leggende, saghe e antichi motivi che si trovavano ai margini della musica colta europea.

L’inizio del Novecento aveva decretato la gloria di Gustav Mahler in qualità di direttore d’orchestra – le sue sinfonie portentose, invece, non ottennero il plauso della critica ed entusiasmarono poco le sale da concerto. Fu il compositore austriaco a concepire un’idea onnicomprensiva della musica, che si riassume nella frase “una sinfonia deve essere come il mondo”. Ma questo macrocosmo non includeva il folklore dei territori periferici, il cui studio era relegato a un piccolo gruppo di esperti che provavano a risvegliare l’interesse verso il patrimonio orale della Penisola iberica, della Scandinavia e dell’Europa orientale.

La Sinfonia n.1 in mi minore op. 39 di Jean Sibelius, composta nel 1898, rappresenta il suo approdo al genere sinfonico e segnerà l’inizio di un percorso che sarebbe durato trent’anni. Questo pilastro del tardo romanticismo risponde all’esigenza di plasmare un’identità musicale finnica, traendo ispirazione da un popolare canto contadino e dal romanzo epico Panu di Juhani Aho, che narra lo scontro micidiale tra la religione cristiana e i rituali pagani nel Medioevo. La situazione non era migliore ai tempi di Sibelius. Il Granducato di Finlandia, schiacciato politicamente tra il Regno di Svezia e l’Impero zarista, rischiava di implodere a causa dei conflitti con lo zar Nicola II, che aveva imposto la russificazione di Helsinki mettendo a repentaglio la sua autonomia linguistica. Partendo da un contesto socioculturale incandescente, nel quale gli intellettuali si impegnavano a preservare le radici di una patria perduta, Sibelius decise di superare il provincialismo careliano degli esordi per misurarsi con il modello diatonico-tonale classico, ma senza mai abbandonare l’orgoglio del retaggio finlandese e i lieux de mémoire che si legavano al suo vissuto.

Nel primo movimento il clarinetto solista intona un canto premonitore, accompagnato da un impercettibile rullo di timpani. La successiva esplosione dell’orchestra su un accordo tristaniano recupera il cromatismo di Wagner ma lo stravolge, inserendo vari elementi sincretici che si amalgamano nel corso della sinfonia. L’Andante sprofonda in uno scenario elegiaco, ben lontano dai toni bellicosi dell’Allegro energico che lo ha preceduto. Ma questa pausa dalla narrazione pessimista di Sibelius, ingentilita dagli arpeggi dei fiati e dalle melodie in sordina di violini e violoncelli, verrà interrotta dal ritorno del tema iniziale. Segue uno Scherzo dal carattere eroico che contrappone l’idillio alla realtà e sfocia in un doloroso Finale, dove la ferocia degli antagonisti sconfigge un popolo ormai inerme e incapace di difendersi. Il tema espressivo in do maggiore del Quasi una fantasia modula nella cupa tonalità di impianto; la sinfonia muore tragicamente sul pizzicato degli archi.

Molto diverso lo sviluppo del Concerto per orchestra di Bela Bartók, eseguito per la prima volta a Boston il 1° dicembre 1944. Come lo definì lo stesso autore, “questo lavoro orchestrale simile a una sinfonia tratta i singoli strumenti o le diverse famiglie di strumenti in una maniera abbastanza solistica o concertante”. L’ibrido tra il genere del concerto e la sinfonia è ravvisabile in altri brani del periodo neoclassico, tra cui l’omonima composizione di Paul Hindemith, il Concerto di Goffredo Petrassi e quello di un illustre connazionale di Bartók, Zoltán Kodály. Il Concerto per orchestra unisce spunti e abbozzi maturati dopo due anni di totale silenzio. Bartók era emigrato negli Stati Uniti per sfuggire al regime filonazista di Ferenc Szálasi e stava provando a adattarsi, tra mille difficoltà, alla vita metropolitana di New York. Il compositore ungherese si era avviato in una direzione diversa rispetto alle partiture sofisticate dei primi anni Trenta, sposando una linearità che si prestava al consumo di massa. Ciò non significava degradare il discorso musicale, quanto piuttosto renderlo fruibile ad un pubblico vasto.

Il Concerto per orchestra è contraddistinto dall’arditezza sperimentale e da un contrappunto audace, come si nota dal trattamento virtuosistico nelle parti in stile fugato affidate agli ottoni nel primo movimento. Il fulcro della composizione è il graduale passaggio dal risveglio all’affermazione vittoriosa dello slancio vitale, in quella che potremmo considerare una palingenesi. I movimenti centrali, Giuoco delle coppie e Intermezzo interrotto enfatizzano il fascino del musicista per le simmetrie e le proporzioni, mentre i passaggi conclusivi del brano offrono dei passaggi in perpetuum mobile tra gli archi, che sembrano rincorrersi spiritosamente. Le avventure nell’atonalità, gli accenti briosi e i ritmi folgoranti incasellano dei tocchi di colore strumentale tipici del folklore ungherese e romeno.

Per la Sinfonia n.1 di Sibelius, la nostra scelta ricade sull’interpretazione della Swedish Radio Symphony Orchestra, diretta dal finlandese Esa-Pekka Salonen.

Quanto al Concerto per orchestra di Bartók, ci sembra doveroso omaggiare il compianto direttore d’orchestra giapponese Seiji Ozawa, scomparso il 6 febbraio. Vogliamo proporvi la sua registrazione live con la Boston Symphony Orchestra (1992). Buon ascolto.

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Aggiornato il 18 novembre 2024 alle ore 13:43