“La nostra terra”: cannibalismo agreste

Esiste il cannibalismo in termini astratti? Sì: sempre e comunque, in termini figurativi, se stiamo parlando di possesso di uomini e terre, materia privilegiata del dominio commerciale e imperiale. Il mondo organizzato funziona da sempre così: i piccoli fagocitano i grandi, sia nel sistema del capitalismo avanzato delle multinazionali e dell’economia finanziaria, con quest’ultima che fa dell’antropologia una categoria economica; sia nell’universo agreste e in quello contadino, in particolare.

Dai creatori di Loving Vincent, sulla vita di Vincent Van Gogh, arriva nelle sale italiane il 2, 3 e 4 dicembre, un nuovo bel film d’animazione pittorica, La nostra terra – The Peasants, diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman e tratto dal romanzo I contadini dello scrittore polacco Władysław Stanisław Reymont, Premio Nobel 1924 per la Letteratura. Una storia drammatica, ambientata nel mondo contadino della Polonia di fine Ottocento, in cui la preda è una giovane e bella contadina, Jagna, oggetto cult di piacere immaginario da parte di tutti gli uomini scapoli e ammogliati, giovani e anziani, che popolano un piccolo borgo rurale polacco. Nel paesino, appartenente al feudo di un signorotto locale, ha un ruolo di prestigio il Primo contadino, colui cioè che possiede più terra da coltivare di tutti i suoi compaesani. Prima che sulla storia, però, vale la pena soffermarsi sulle tecniche di rappresentazione pittorica, che operano una transizione-transazione dai dipinti a olio dei pittori polacchi di fine XIX-inizio XX secolo, con le attuali tecniche cinematografiche e di animazione.

Molto “vangoghiani”, i personaggi sembrano scolpiti nella sostanza materica dei colori stessi, prendendo tutte le sembianze dei fenotipi umani, per cui il movimento viene fuori come torsione progressiva dei muscoli del volto e degli arti delle figure antropomorfe. Rendendo se possibile ancora più drammatiche le feroci sequenze mentali che porteranno al martirio simbolico di Jagna, e alla sua violenta espulsione dalla comunità contadina di origine. E, in tutto questo, la forma pittorica dinamizzata consente alle scene che raffigurano i paesaggi naturali di sposarsi con l’espressionismo violento e abbagliante di Van Gogh. Così, le transizioni di contesto (come accade con La metamorfosi di Maurits Cornelis Escher) degradano gli scenari originari in spot finali, attraverso vere e proprie ondate dinamiche di colore compatto, che cavalcano come spume cromatiche i segni vividamente colorati dei contorni dei campi, dei fiori e dei costumi contadini dell’epoca. Si procede così a ritmo ossessivo con disarticolazione e defoliazione di pennellate; si sfumano come fiamme al vento i margini delle cose e delle persone, ottenendo straordinarie transizioni di paesaggi, impossibili da realizzare senza i software sofisticati di manipolazione della realtà che, però, qui sono realizzati da centinaia di mani appassionate di artisti veri. Nulla è più corporeo, volumico e concreto di queste stanze e dei loro abitanti (ripresi soprattutto nelle scene sfrenate di danze popolari), osservati secondo la prospettiva a più punti di fuga.

Così come sono travolgenti i racconti silenti a volo d’uccello sui campi coltivati; sull’alternarsi su di loro e sugli uomini delle stagioni, che vanno dai foliage autunnali, passando per le gelate invernali, fino alla resurrezione primaverile e al caldo soffocante sotto le luci accecanti dei bagliori diurni estivi. Ma, The Peasants è anche una lotteria spietata di chi si aggiudicherà il primo premio ambito del corpo della donna più bella del paese, asserragliata nella sua virtù cedevole dai riti tribali dei matrimoni combinati, in cui si mette assieme la voglia senile del Primo contadino Boryba, rimasto vedovo, e quella esuberante di suo figlio Antek che possiederà Jagna ben prima di suo padre. E qui, la protagonista subisce la stessa sorte delle terre contese dai figli e dalle nuore di Boryba, divenendo vera e propria merce di scambio, mentre le fiamme della passione divorano inutilmente più di un giovane pretendente. E chi non ce la fa a fare l’amore con lei, su di un pagliaio o un campo di grano, si inventa mille storie non vere di mirabolante possesso, scatenando, come dice una celebre canzone, l’ira delle mogli e delle compagne tradite.

All’interno del quadro delle passioni amorose, soddisfatte o frustrate, compare un attore politico del tutto inatteso: il signorotto, che non intende rispettare i patti di disboscamento storicamente ad appannaggio dei contadini del Paese per la loro sopravvivenza invernale, provocando una vera e propria rivolta dei paesani, poi soppressa nel sangue. Tutto regge, in questa storia di possesso e di dominio, in cui pesano come non mai le celie velenose delle comari e, soprattutto, i ginecei delle più anziane, che sembrano voler uccidere il tempo che passa facendo giustizia sommaria delle voglie giovanili, rigogliose di sessualità e di ferormoni orientati alla riproduzione. Quest’ultima, nel caso delle malevoli anziane, interdetta per loro da tempo, così come già accaduto alla bellezza ormai sfiorita dei loro volti segnati da rughe, resi ancora più sgradevoli dalle pance prominenti e dai seni cadenti. In sintesi, un apparente dominio del patriarcato, orribilmente mutilato da un prepotente, dittatoriale femmineo. Come sempre è accaduto e accadrà, senza alcun bisogno del #MeToo!

Voto: 8

Aggiornato il 18 novembre 2024 alle ore 13:29