Recentemente mi sono imbattuto in una frase di Erich Fromm, celebre psicanalista e filosofo tedesco, il quale, in uno dei suoi scritti, pone una domanda che appare seducente nella sua semplicità: “Qual è lo scopo della vita? Diventare più umani o produrre di più?”. Questa contrapposizione tra la dimensione esistenziale e quella produttiva, capace di affascinare la stragrande maggioranza degli uomini (e degli studenti) della nostra società occidentale, nasconde però una fallacia. Fromm sembra proporre un dilemma irrisolvibile, come se l’essere umano dovesse scegliere tra il proprio perfezionamento morale e la capacità di “produrre”, qualunque cosa questo verbo voglia significare. Se “produrre” significa, come crediamo, generare e offrire ad altri prodotti e servizi in cambio di denaro, e quindi valore per la società, allora questa visione ci appare grossolanamente limitata, poiché sembra ignorare la complessa natura dell’uomo e il modo in cui esso si realizza attraverso l’esercizio delle virtù, in un equilibrio che include sia l’aspetto morale sia quello produttivo.
Fin dai tempi dell’antica Grecia, filosofi come Aristotele hanno insegnato che l’essere umano si realizza non tanto attraverso una semplice contemplazione della propria umanità, ma attraverso l’esercizio della virtù. La virtus, secondo i Romani, era l’insieme di tutte quelle qualità che rendevano un individuo un buon cittadino. Ma, per essere virtù autentica, essa doveva essere praticata non astrattamente, ma nel concreto della vita quotidiana. La dimensione produttiva, in questo contesto, non veniva visto come un ostacolo al perfezionamento della propria umanità, ma una condizione necessaria per raggiungerla. Anche nella Bibbia, tra le vie privilegiate proposte per recuperare l’umanità ferita dal peccato originale troviamo il lavoro. Ma tutti questi discorsi sono solo sovrastrutture per consolidare il sistema economico dominante, diranno i marxisti.
Pensiamo, però, a qualcosa di molto più vicino alla nostra realtà quotidiana. Quanti di noi sono marito e moglie, papà e mamma? Gli antichi consideravano la genitorialità come uno dei più alti modi per perfezionare la natura dell’uomo e della donna. Un buon genitore non solo ama i propri figli e li guida moralmente (si spera!), ma provvede anche al loro sostentamento, si preoccupa della loro educazione e garantisce una casa sicura e accogliente. Questi doveri non richiedono una virtù astratta, ma capacità pratica, lavoro e, in definitiva, produttività. Il genitore che non è in grado di provvedere alle necessità materiali della famiglia non può considerarsi completo nel suo ruolo.
Dunque, la virtù dell’umanità, così cara a Fromm, non sembra opporsi affatto alla dimensione produttiva, anzi, spesso la richiede. Essere umani e produrre non sono in contrasto: il lavoro, la produttività, la cura della famiglia e la protezione della proprietà sono tutte dimensioni interconnesse nella vita di un uomo o di una donna responsabili. Citando ancora il pensiero aristotelico, l’uomo produce proprio perché è un animale razionale. Anzi, l’unico animale razionale. La critica di Fromm alla produzione rivela, a mio avviso, un paradosso interessante, soprattutto se consideriamo la sua affiliazione al pensiero di sinistra e al debito culturale che, secondo quanto egli stesso affermava, aveva nei riguardi di Karl Marx. La sinistra ha sempre considerato il lavoro come l’attività umana per eccellenza, il fondamento della dignità della persona. Marx, ad esempio, vedeva nel lavoro la possibilità di realizzare sé stessi e di liberarsi dall’alienazione. Tuttavia, con il passare del tempo, una parte dell’Intellighenzia di sinistra sembra aver abbandonato questa prospettiva.
Allan Bloom, nel suo celebre saggio La chiusura della mente americana, sottolinea come la sinistra sia passata da una lotta contro la borghesia come classe economica a una lotta contro la borghesia come classe culturale. In altre parole, il focus della critica non è più la distribuzione (presuntamente) ingiusta delle ricchezze e delle risorse, ma il sistema di valori borghese, che include il rispetto per il lavoro, la produttività, il fantomatico “capitalismo”, e l’organizzazione familiare tradizionale. Da questa prospettiva si capisce perché molti intellettuali di sinistra, come Fromm, finiscano per disprezzare la dimensione produttiva della vita, vedendola come un ostacolo all’autentica realizzazione umana. Questo atteggiamento, però, sembra profondamente incoerente. Da un lato, questi pensatori sostengono che il lavoro sia lo strumento attraverso cui l’uomo si libera dall’oppressione; dall’altro, sembrano disprezzare la produzione e le dinamiche economiche necessarie per garantire il benessere sociale. Così, si arriva alla paradossale situazione in cui una parte della sinistra, pur riconoscendo il valore del lavoro come strumento di emancipazione, lo svaluta nella sua dimensione quotidiana e concreta.
Il dilemma posto da Fromm, dunque, è fuorviante. L’essere umano non deve scegliere tra diventare più umano o produrre di più. La sua natura lo porta a realizzarsi proprio nel fare entrambe le cose, integrando la propria umanità con la capacità di generare valore, non solo per sé, ma anche per la società. Come ha dimostrato la tradizione filosofica occidentale, e come possiamo vedere nell’esperienza concreta della vita familiare e sociale, il perfezionamento morale passa attraverso l’esercizio della virtù, e molte virtù richiedono proprio la capacità di produrre e di provvedere. Il pensiero di Fromm, nella sua apparente profondità, rischia di offuscare una verità fondamentale: l’uomo è un essere relazionale, e la sua umanità si manifesta tanto nella dimensione interiore quanto in quella esteriore. La produttività, il lavoro e la capacità di generare valore non sono solo strumenti per la sopravvivenza, ma possono essere espressioni di un’umanità pienamente realizzata. Disprezzare il lavoro e la produzione significa, in fondo, disprezzare una conseguenza inevitabile e insopprimibile della natura umana.
Aggiornato il 30 ottobre 2024 alle ore 08:50