“Trifole”: demenza e tartufi

Il film Trifole – Le radici dimenticate (in uscita nelle sale italiane dal 17 ottobre), per la regia di Gabriele Fabbro, con interpreti Umberto Orsini (nonno Igor), Ydalie Turk (la nipote Dalia) e Margherita Buy (Marta, figlia di Igor e madre di Dalia), è un viaggio struggente tra demenza senile e tartufi bianchi. L’interprete principale e assoluto del film è tuttavia un altro: i paesaggi delle Langhe. Una cosa splendida, camaleontica e colorata dei colori autunnali arancio-rosso delle viti che stanno per perdere il fogliame, imbalsamate eppure ben vive, allineate in lunghi filari che arredano con inviluppi di linee curvilinee parallele i profili dolci delle colline, articolate secondo un paesaggio sinusoidale, perennemente ascendente e discendente. Esattamente come la vita umana che si consuma scucendo una a una tra di loro le varie età, che non ritrovano più il filo comune della memoria, privilegiando l’unica ossessione rimasta al cercatore dell’oro vegetale. Quel tartufo bianco, cioè, così prezioso e raro, per cui un paio e passa di chili di un solo esemplare possono venire battuti alle aste internazionali, come quella del tartufo di Alba, fino a centocinquantamila euro!

Ed è proprio questo il sogno-incubo del vecchio Igor, talmente sicuro di trovarne uno simile da essersi dimenticato per anni, in questa sua ricerca quasi senza speranza, di pagare il mutuo della sua casa di campagna. Motivo per cui il suo destino è l’ospizio, una volta che la banca creditrice sia venuta definitivamente in possesso dell’immobile. Ma Igor, per fortuna non è solo. No: ha una figlia Marta e sua nipote Dalia che vivono al Londra, dove Marta è paramedico ospedaliero e vigila con le video telefonate sulla salute dell’anziano padre. Ma, nostra Sorella Demenza, come direbbe Santo Francesco, ha una prerogativa terribile, assai simile all’altra nostra sorella Morte: oscurare i ricordi; rodere come un castoro maligno, giorno dopo giorno, quella nostra rete di neuroni con i suoi circuiti sinaptici così tanto preziosi. Allora, Igor dimentica di avere un cellulare, di ricaricarlo e di rispondere alla propria figlia che, vivendo a migliaia di miglia di distanza non può che inviargli in soccorso l’unico messaggero a sua disposizione e di cui si fida: sua figlia Dalia, che viene dalla conoscenza di un’altra dea maligna dei nostri tempi: Sora Depressione.

Tutte parenti delle Parche classiche, che chiedono sacrifici umani, preghiera e obbedienza. Dalia, laureata in lettere, con notevoli difficoltà a cavarsela con l’italiano, ha tentato di realizzare il suo grande sogno di diventare una scrittrice fallendo nell’impresa. Anche perché, come profeticamente diceva Italo Calvino, ci sono al mondo molti più scrittori che lettori, visto che oggi il business delle auto-pubblicazioni inonda l’editoria globale di centinaia di migliaia di titoli e volumi, il cui solo destino comune è il macero! Allora, niente di meglio per uscire dal tunnel che il riscatto di un affetto difficile e quasi impossibile: conquistare il cuore del vecchio nonno Igor. Dalia cercherà così, con disperazione e fermezza, di salvarlo dalla sua vacuità domestica, in cui ogni cosa sembra fluttuare, come accade agli oggetti all’interno dell’abitacolo di un’astronave in disordine, in assenza di gravità.

Spetterà a lei, giovane donna in tormento, ma sensibile come pochi, il compito di fissare a terra tutti quegli oggetti, curandosi della salute del nonno che, intanto, con somma disperazione di Marta, ha dimenticato sul comodino e nei cassetti le medicine salvavita. Eterno despota farmacologico, quest’ultimo, che si espande con il crescere del disordine della macchina biologica arrivata alla terza età, in cui ogni giorno che passa fa lo sgambetto a chi tenta di scendere dal letto e muovere i primi passi del mattino. Poi, c’è la storia del Fulmine, in un fine estate avaro di pioggia, perché secondo una teoria strampalata di Igor, nel luogo in cui cade, lì si trova sepolto il tartufo gigante.

E chi dovrà tentare un’impresa simile, visto che Igor naviga nelle sue nebbie mentali, se non il cane da tartufi Birba (la più brava di tutti i grandi attori in scena), divenuto compagna inseparabile anche di sua nipote Dalia? Ma, come dice il Vangelo, per ogni tesoro in terra (e il tartufo bianco lo è, dal punto di vista delle radici vegetali), c’è un ladro che vien di notte a portare via tutto: sogni di riscatto e felicità incontenibile, a seguito della faticosa scoperta tra mille difficoltà per la trifola gigante, secondo le indicazioni folli del nonno Igor dopo un forte temporale. Tutto perduto, quindi? No, assolutamente, se si resta uniti tra le tre generazioni, padre, figlia e nipote.

Voto: 7,5

Aggiornato il 16 ottobre 2024 alle ore 14:05