“Sei un deficiente!”. Fino a un paio di generazioni fa, questo era un rimprovero che bambini e adolescenti (ma anche adulti!) normalissimi si sentivano ripetere da insegnanti, genitori e capi o capetti sul luogo di lavoro. E nessuno se la prendeva più di tanto, perché era solo un modo di dire e un’espressione colorita di rimprovero e disappunto. Già: ma qual era il suo vero e profondo significato alla fine Ottocento e inizio Novecento, quando Maria Montessori (1870-1952), testardissima giovane donna, la prima a laurearsi in Medicina in Italia all’Università di Roma, inizia il suo percorso formativo e professionale? Ne parla il biopic Maria Montessori – La Nouvelle Femme (in uscita nelle sale italiane il 26 settembre), per la regia di Léa Todorov e l’interpretazione magistrale di Jasmine Trinca (Maria) e di Leïla Bekhti, quest’ultima nelle vesti del personaggio di fantasia Lili d’Alengy, nel film una famosa cortigiana parigina del 1900. Molto si è capito dall’incontro diretto con la stampa di Jasmine e Léa, che hanno ricongiunto topograficamente tutte le singolarità del racconto, con le loro considerazioni del tipo esterno-interno sul ruolo della donna nel mondo e nella società. Il film appare perfetto, infatti, per un discorso di donne ad altre donne, in tema di maternità sospesa, negata e, viceversa, totalmente esaltante se surrogata attraverso l’amore incondizionato per le creature nate “deficienti” e del tutto inadatte a sostenere una vita normale, fatta quest’ultima di gesti coordinati, vocabolario intellegibile e stimolazioni sociali correttamente percepite e restituite.
Maria è un percorso controvento attraverso un mare di scogli e di ghiacci affioranti, da superare a remi dentro un tronco scavato con strumenti rudimentali, avendo a bordo un fragile equipaggio che non conosce né venti, né correnti, né bussola, ma è dotato dell’attrezzatura più potente che si possa concepire: la voglia di vivere. Ora, quel che intuisce Maria è che, partendo proprio da questa risorsa comune a qualunque individuo giovanissimo della nostra specie, si può mettere la fiamma sotto un tronco nato storto, ma duttile come la creta, per restituirgli una postura il più possibile eretta, assecondando con regole didattiche del tutto nuove e rivoluzionarie il suo iper-bisogno di affettività e di interazione da parte dell’adulto, soprattutto quando si tratta di una figura genitoriale o tutoriale. Semplice e intuitivo? Solo a posteriori. Non quando si vive a diretto contatto e all’interno di una società premoderna, in cui alla figura femminile sono conferiti tutti gli oneri riproduttivi ed educativi della prole, senza altro riconoscimento a lei dovuto, se non quello della pretesa della cieca obbedienza al pater familiae (padre-marito), di cui “Lei” è metaforicamente una “sua proprietà”! Quindi, niente di meglio che contrapporre a questo regime claustrofobico-repressivo ben due esempi di violazione di questo rapporto di antisimmetria uomo-donna, in cui la rottura avviene, da un lato, per libertinaggio trasgressivo, dove Lili è una famosa cocotte parigina di grande successo, che utilizza il suo corpo e il fascino seduttivo per ottenere dagli uomini tutto quello che da questi ultimi viene negato alle proprie mogli, fidanzate e sorelle.
Maria è, invece, il suo contrappasso morale: figlia di famiglia, profondamente umiliata e frustrata per aver avuto un figlio, Mario (messo a balia fino all’età di 15 anni!), dal suo amante Giuseppe Montesano, condirettore con lei di un istituto pedagogico sperimentale, all’interno del quale Maria lavora pro-bono, mentre il suo partner riceve un regolare stipendio. Ed è lei a non voler sposare il suo collega, pur innamoratissimo, perché il matrimonio è il totem negativo della libertà perduta, dello schiavismo familiare da lei ben conosciuto attraverso il suo tormentato rapporto tra padre e figlia. E l’invenzione davvero intelligente del film è di unire queste due polarità opposte che pur, come vuole la fisica, si attraggono irresistibilmente, trattandole entrambi in sequenze di struggente bellezza (con una ricostruzione appassionata degli ambienti e dei costumi), che legano le vicissitudini di due donne tanto diverse: In cui la libertina si innamora gradualmente della sua figlia disabile attraverso l’arte magica di Maria, della musica e dell’immersione totale nella classe montessoriana, assistendo al miracolo nascente di una vita socio-cognitiva che si afferma e si sviluppa nonostante tutti gli handicap ricevuti alla nascita.
Davvero bellissime le atmosfere opposte, quelle frivole di un mondo ricco e dissoluto, nullafacente e disperato nelle sue vacuità, opposto alle virtù accademiche dei sapienti che poco sanno e molto presumono. Ma poiché non si vive di solo pane e Maria ha bisogno di autonomia economica, ecco che la ricchezza frivola, forte dei suoi rapporti che contano, si piega alle esigenze messianiche e missionarie del mondo montessoriano, trovando una soluzione accademica del tutto soddisfacente per la protagonista. Film eccellente.
Un’osservazione finale: in tutta la materia davvero complessa e affascinante della maternità consapevole e dell’esigenza di raggiungere la perfetta parità lavorativa e genitoriale uomo-donna, rimane una faccia in ombra della luna, a prescindere dai sessi. Ovvero, che esistono nel mondo delle arti e dei mestieri dei lavori per così dire, “da seminarista” perenne, in cui non si ha tempo da dedicare alla cura dei figli, a prescindere dalla volontà di averne o meno. Se si è musicisti o attori di un certo livello, è altissima la probabilità di non avere mai tempo per la cura dei figli, essendo costretti a lunghe assenze e, perciò stesso, a doverne affidare la cura ad altri. La storia tracima di esempi famosi e di figli frustrati e abbandonati di grandi uomini e donne. Non sarebbe opportuno parlare anche di questo? E che dire dei genitori-non genitori, che hanno tutte le premesse invidiabili e auspicabili di benessere e stato sociale paritario, ma che rimangono alla stato infantile di eterni bambini?
Voto: 9
Aggiornato il 24 settembre 2024 alle ore 11:16