Invitato dall’amico Giuseppe Sanzotta, che oltre a dirigere Il Borghese è impegnato nel Comune di Morlupo, un borgo medievale vicino Roma, per una serata notturna di poesia, canto e musica mi reco a vedere, ascoltare. Oltretutto, verranno lette mie poesie. 21.30, semibuio, con Piazza Giovanni XXIII gremita di gente, inizia lo spettacolo. vedo Sanzotta, che interrogato da un garbato e non dispersivo conduttore, il giornalista Marco Rho, dice qualcosa su di me, riferendosi ad un libro che proprio Giuseppe ha presentato nel salone comunale qualche mese fa: Ho vissuto la vita-Ho vissuto la morte.
Vi sono altri interrogati, e la recitazione dei testi. Leggono mie poesie. E per come ha interpretato Rimi Beqiri, è la prima volta che apprezzo tutto: la voce, le pause, la sottolineatura e la dizione de I miei fantasmi, con la ripetizione ossessiva del ricordo per le persone amate, che è stato espresso appunto come un’ossessione, staccandola un istante dalla continuità di un testo quasi narrativo. Perfetto Beqiri nel finale dell’altro testo: Ad Elisa. Un reciso, deciso, che non basta vivere ma esprimere, e lasciare segno. Annoto la poesia I miei fantasmi, per dare la cognizione della relazione di quanto scrivo con il testo:
Se da queste caverne, se queste caverne non mi soffocheranno, se vi sarà spiraglio, vorrei, voglio che la memoria sopravanzi e di chi amai, memoria. Mia madre, innanzi, coraggiosa, degna, madre vera, madre antica, guerriera per i suoi figli, mai stanca, e dal bisogno resa ancor più ferrea, stai nella mia eternità finché vivo, possa continuare oltre me stesso il tuo ricordo, mi sento indegno se non ti consacro. Mio padre, ucciso, la tua ombra, non ti conobbi, immagini soltanto, e vicende che mia madre narrava, bello, dice mia madre, bello nelle tue figure, ed anch’io guardo le remote sembianze estinte, devo salvarti dalla doppia morte, mi sento indegno se non ti consacro. E tu esile, stanca, ombra di un’ombra, tu sorella ancora non fanciulla, tu sparita senza compiere giorno, silenziosa, assorta, vittima sconfitta, non posso abbandonarti a quella morte, tu devi sopravvivere, tu meriti l’eternità dei fantasmi infelici. Mi sento indegno se non ti consacro. Eccolo, lui, gonfio, faccione, passetti brevi, amavi il canto ,le donne ed i figli, tu eri mio fratello, sei stato mio fratello, lo resterai per sempre. Mi sento indegno se non ti consacro. Infine mi appari, ti ho vista giorni prima della fine, ti disfacevi, ti scioglievi, mi ringraziasti di averti incontrato viaggiando, poi in una stanza penombrata eri stesa con le mani sul cuore ed una scarna croce, derelitta. Chiedimi vendetta della tua svilita sorte, l’avrai, sorella. La mente mi opprime di memorie e chiede altre memorie. Devo oltrepassare la sfera del silenzio edificare una immortalità familiare. Non basta amarci nella vita, mi obbligo a compensarvi della morte. E vivo per non farvi morire.
Tutti gli intervenuti hanno dimostrato qualità, misura, dignità. Una civiltà culturale non gridata ,non smodata, né codina, né timida. Con la misura del buon gusto. Occorre salvare la “parola interiorizzata dal sentire personale”. Questa tremenda possibilità che l’uomo non abbia un se stesso, ma vale per gli strumenti che usa – invero strabilianti – ucciderebbe la civiltà “umana” dell’io sento ed esprimo, della “mia” individualità. Oggi il liberalismo più che politico è antropologico: io senziente espressivo.
Aggiornato il 30 luglio 2024 alle ore 16:34