Nella società attuale, in modo sorprendente, vige ancora una dicotomia interpretativa del diritto nascente dalle due antiche antitetiche concezioni, riassumibili una in quella greca (impostata sulla valorizzazione del concetto di Thesis) e l’altra in quella romana (basata sul concetto di Nomos). La succitata dicotomia ha determinato negli anni successivi conseguenze enormi nel modo di concepire il rapporto tra lo Stato e l’individuo, nonché nel modo di valutare l’importanza della libertà individuale.
Prima di iniziare una disquisizione riguardante il merito di questa dicotomia, è necessario illustrare un succinto, ma comunque significativo, excursus storico inerente all’evoluzione del diritto nella storia dell’umanità. Aristotele, uno dei più illustri filosofi dell’antichità, fu tra i primi a entrare nel merito della suddetta distinzione concettuale, risolvendola nella teoria della “giustizia commutativa”, ossia un deciso tentativo di stabilire oggettivamente la natura del giusto particolare, ossia la natura dell’uguale nei rapporti giuridici. Pertanto, per lo Stagirita ciò che rende giusto il rapporto tra due soggetti è l’equivalenza tra i beni da essi scambiati o tra il danno subito e il relativo indennizzo corrisposto. Un’equivalenza generata dal bisogno, che non solo determina lo scambio dei beni, ma permette che ci sia una valutazione comparativa attraverso l’utilizzo della moneta, che non rappresenta altro che un modo di scambiare i bisogni.
La suesposta teoria aristotelica, riassumibile in un tentativo di ridurre il diritto obbligatorio all’economia, ha una valenza straordinaria, sia per quanto riguarda la sua novità e originalità nel ricercare nel diritto un elemento stabile sia perché la riduzione della teoria della giustizia particolare alla teoria del bisogno economico rappresenta una vera e propria innovativa concezione del diritto naturale, tramite la quale ravvisare nel cosiddetto bisogno economico l’elemento stabile e naturale del diritto in generale e del diritto obbligatorio in particolare.
In seguito, la dottrina giuridica epicurea elaborò una concezione nella quale si tentò di conciliare la classica antitesi Thesis/Nomos risolvendola nella dottrina del contratto. La dottrina del contratto di matrice epicurea rappresentò una tappa fondamentale per lo sviluppo del pensiero giuridico nella speculazione intorno al diritto e allo Stato nell’età moderna, in quanto fondamento delle comunità politiche e della legislazione in generale.
Nonostante i due concetti innovativi appena esposti, nella cultura giuridica dell’antica Grecia dominò il concetto di Nomos nel significato di legge imperativa (nello specifico, a partire dal VI secolo avanti Cristo), perdendo in tal modo e gradualmente l’accezione originaria (regola consuetudinaria), che, invece, venne in seguito ripresa e valorizzata da Aristotele.
Infine, nell’età di Pericle e con la filosofia di Protagora il diritto viene declinato come una legge scritta, definita dal potere politico dominante, perdendo di conseguenza la sua connotazione di consuetudine (espressione dell’anima popolare) e quindi di volontà umana riconosciuta collettivamente.
Dunque, nella concezione giuridica più diffusa nel mondo greco il diritto era considerato una scienza razionale, concependolo come legislazione (Thesis), che aveva lo scopo di conferire al legislatore un potere assoluto per declinare nella pratica i principi accertati dalla scienza.
Un riflesso storico della concezione giuridica di matrice greca si ritroverà molto più tardi nella dottrina della Rivoluzione francese, ossia quella impostazione culturale che si fondava sugli ideali dello Stato e della legislazione-modello (considerati infallibili proprio perché creati dalla Ragione), in cui trionferà tutta la violenza dell’erronea interpretazione razionalistica.
Mentre nell’antica Roma i detentori della politica preferivano concepire il diritto nella sua accezione di Nomos, ossia consideravano opportuno lasciare spazio all’attività giuridica spontanea degli individui anziché intervenire costantemente con delle leggi. Ciò perché gli antichi romani non provavano alcuna attrazione per la legislazione o per delle “costruzioni-modello”, nascenti dai dettami della ragione. In sostanza, il diritto romano non aveva mai ricercato alcuna giustificazione razionale in un istituto tanto quanto un fisico di oggi non cercherebbe mai una giustificazione razionale di un fenomeno fisico.
Inoltre, da un punto di vista prettamente giudiziario, la dicotomia concettuale fra la dottrina greca e quella romana emergeva in modo eclatante durante i processi. Infatti, i retori greci avevano l’obiettivo di convincere i giudici ad accettare una certa tesi piuttosto che un’altra, mentre i giureconsulti romani in alcun modo intendevano esprimersi per difendere una causa, ma al contrario si limitavano ad accertare una realtà, permettendo, così, agli oratori di perorare la tesi favorevole ad una delle parti.
Quindi, riassumendo quanto finora esposto, mentre per la concezione giuridica greca (Thesis) il diritto è considerato una sorta di scienza del giusto generato dalla Ragione e quindi considerata infallibile, invece per la concezione giuridica romana il diritto è inteso come una scienza del diritto, ovvero quella scienza che si basa sulla continua conoscenza dei rapporti che si concretizzano storicamente nella società, basata sul caso pratico e per questo valida solo se continuamente correggibile grazie all’evoluzione dell’esperienza.
Al postutto, come ha affermato il luminare giurista Bruno Leoni, “il diritto è per i Romani assai più un oggetto da osservare e da conoscere che una volontà da manifestare o un contratto da esprimere”.
“Corruptissima re publica plurimae leges” (Tacito – Annales, Libro III, 27)
Aggiornato il 24 luglio 2024 alle ore 12:56