“Il gusto delle cose”, anzitutto di mangiare

Il gusto delle cose è un film di oltre due ore in cui non si fa altro che preparare da mangiare. Il cibo è la metafora della vita, del sapere apprezzare le cose ancora prima del nutrirsi bene, del rispettarsi a vicenda e del volersi bene soddisfatti di ciò che siamo. Il regista è Trần Anh Hùng, un vietnamita i cui genitori sono emigrati in Francia. Il cinema francese è interessante perché è la “cartina di tornasole” della sua società: una ventina di anni fa parlava di amori e tradimenti, una decina di anni fa di amicizia tradita, pochi anni fa tutti si mettevano con tutti, poi è stato travolto dalla agguerrita ondata di immigrazione ed è stato invaso dalla sua difficile integrazione. Oggi è letteralmente “alla frutta”, vale a dire che parla di cibo, o, meglio, il vietnamita che non ha mai “vissuto” le cucine francesi – evidentemente ammirandole – celebra il cibo e il buon vivere occidentale. Il film tratta di Dodin-Bouffant (Benoît Magimel), uno stimato chef dell’Ottocento che, in un posto non precisato nella vasta campagna francese, enuclea e crea nuovi piatti assemblando pietanze prelibate. Preparate secondo il genio della assistente cuoca, presto moglie della casa. Vorrebbe infatti essere non interessata al coniugio, improbabile per le strette e rigide regole sociali dell’epoca: “Siamo felici così perché sposarci?”.

Il regista ci abitua da subito a un ritmo lento e tranquillo delle piccole cose e dei silenziosi piaceri. È un insistito battere di zoccoli e il loro ticchettio costante in casa e fuori, dappertutto. Le parole sono poche, lasciano spazio a un bell’arcobaleno di sentimenti. C’è tanta gioia tra i due protagonisti comunicata e sussurrata tra un pentolame e l’altro. C’è la profonda stima reciproca tra un manicaretto ben fatto e l’altro, c’è esaltazione nel riuscire nel successo e bontà della pietanza, nel volersi bene e sentirsi vicini, per l’intesa, fino a commuovere lo spettatore in sala. La cuoca Eugénie – interpretata come sempre magistralmente da una Juliette Binoche felice ed esausta, malata, tra i fuochi – rimane in cucina quando gli uomini mangiano e, riverita dai graditi ospiti, afferma con sincerità di parlare attraverso il cibo che assembla e crea e che “di meglio non potrebbe esprimere loro a tavola”.

È una vera e propria sferzata che il regista vietnamita naturalizzato francese dà alla male interpretata emancipazione delle donne, per richiamare l’attenzione sul fatto che la felicità non è necessariamente timbrare il carrellino fuori casa e senza famiglia. Tuttavia, anche guardando nel vuoto a volte, la cuoca ha una specie di dubbio e stordimento verso sé stessa: un sentire l’inutilità della vita trascorsa. Si dice apertamente felice, lo è all’evidenza ma nei silenzi tra sé mostra chiaramente il dubbio e i suoi interrogativi disattesi. Non ci sono figli ma c’è Pauline (Bonnie Chagneau-Ravoire), una bambina disciplinata dal gusto sopraffino che è “adottata” dai due ormai coniugi. È proprio Eugénie ad andare a chiedere e a parlare ai genitori della ragazzina, ufficialmente per esprimere loro il talento della figlia, di fatto per averla a casa con sé come una figlia. C’è una parte interessante, sebbene non sviluppata nel film: delle specie di travi di legno a forma di ombrelloni con sopra fili di rame posti in giro nell’orto dei genitori di Pauline.

Si tratta di sistemi di emissione – trattenimento e concentrazione – di campi elettromagnetici che migliorano enormemente, implementandole, le coltivazioni, il genitore dice a Eugénie: “Abbiamo fatto una prova mettendoli solo in una metà dell’orto e la differenza è totale, i prodotti sono di gran lunga migliori”. È un film intenso, lento. Solo per le ricette e la bellezza dei piatti e delle portate, della loro presentazione così come dei vini che vengono assaporati e bevuti, vale la pena andarlo a vedere. Una sorta di “richiamo” e “ritorno” al buon gusto del vivere e del mangiare che era nostro, qui, in Europa, e che si è perso. Questo sembra ricordarci il regista che viene dall’Oriente. Una cucina completa di infinite portate – consommé saporiti, vol-au-vent intrisi di gustosi frutti di mare e verdure cotte tra sughi deliziosi, grandi pesci teneri cotti nel burro, coste di vitello con l’osso in vista da tagliare una a una e insaporire con salse dal carattere forte, dolci invitanti, leggeri e sostanziosi, argenteria lustra e pregiata, piatti di porcellana di Limoges – in una “gara” con un principe che nel film “sfida” lo chef noto quale il “Napoleone” degli chef.

Perché si è perso tutto ciò che era sontuoso e ci faceva bene? La “colpa” non riguarda la tecnologia, che al contrario ha facilitato la vita di noi tutti rendendola più comoda e in qualche modo, “velocizzandola”. Il motivo della perdita delle buone pratiche risiede nell’avere, a ragione, immaginato e “osato” ampliare ed estendere ai più, raffinatezza e buon senso. Purtroppo, il processo si è svolto e rivelato al contrario, ovvero la massificazione del cattivo gusto e della maleducazione sociale.

Aggiornato il 10 giugno 2024 alle ore 17:46