Una famiglia un po’ scombinata ma terribilmente affettiva e unita può essere “commissariata” e scompaginata per un banale incidente domestico? Ed è giusto che a deciderlo sia un soggetto esterno, come i Servizi sociali, che prende unilateralmente le sue decisioni, sottoposte poi per l’approvazione al giudice tutelare, senza alcun contraltare professionale, come invece si usa nei tribunali per le perizie di parte? In fondo, bisognerebbe o no ricorrere a un processo equo per stabilire se un minore sia a rischio e, quindi, da collocare temporaneamente in una struttura protetta (foyer, nel termine francese) e, dopo un congruo periodo di prova valutato come negativo, essere dato in affido? Davvero non contano nulla le disperate grida di dolore e i gesti violenti per overreaction dei piccoli sottratti alla loro madre? Ecco, di tutto questo e di molto di più (su temi che riguardano molte centinaia di migliaia di famiglie nel mondo occidentale), tratta Niente da perdere (Rien à perdre, nelle sale italiane dal 16 maggio), il bel film di Delphine Deloget, interpretato magistralmente da Virginie Efira. L’attrice francese dà il volto a Sylvie, madre di due figli: il primo, Jean-Jacques (Félix Lefebvre), ormai adolescente, appassionato di tromba e di cucina pasticcera, avuto dal primo marito e rimasto orfano del padre a soli due anni; il secondo, Sofiane (Alexis Tonetti), avuto da un compagno che non l’ha riconosciuto, bambino amatissimo da sua madre, tanto bello quanto irrequieto e indisciplinato. Poi, ci sono i due fratelli di lei, diremmo così, anche loro un po’ “storti”. Il primo, Alain (Mathieu Demy), il più normalizzato, con una storia di ludopatia alle spalle e un lavoro discretamente remunerato al suo attivo. L’altro, Hervé (Arieh Worthalter), compagno di serate movimentate insieme alla sorella, che fa la barista in un pub dove si balla e suona, ha un casale malmesso nella campagna di Brest e vive alla giornata. Entrambi i tre fratelli hanno un legame forte e particolare tra di loro per cui, quando matura il dramma di Sylvie, ciascuno dei due, a modo suo, si dà da fare per aiutare la propria sorella. Solo che, impegnarsi non vuol dire necessariamente avere successo, a meno che non si tratti di supplire alla figura paterna nei confronti dei due nipoti, Jean-Jacques e Sofiane. Ovviamente, essendo un film di donne e fatto per le donne, la storia si sposta dal patriarcato maschile a quello istituzionale, se possibile ancora più rigido e ottuso del corrispondente fatto di uomini reali. Già perché anche un collettivo, in cui ancora una volta il ruolo cardine è svolto da un’attenta, quanto pignola assistente sociale, Louise Henry (India Hair), può esprimersi in maniera autoritaria, portando Sofiane all’esasperazione, con quel loro imporre il rispetto delle “regole” che sono auto assegnate e auto elaborate, in base ai manuali della disciplina sociologica relativa.
E anche qui, la rigidità cancella di colpo gli aspetti emergenti di un’affettività prorompente, perfettamente ricambiata, tra madre e figli e tra i due fratelli piccoli pur figli di padri diversi, in cui il più grandicello accetta molto volentieri il tutoraggio obbligato e necessario, a causa della circostanza oggettiva di una madre che, lavorando di notte, rincasa la mattina presto stanca morta. Certo, Sylvie è fin troppo di manica larga e concede molto volentieri qualche piccolo capriccio a Sofiane, come quello di preparasi da solo in casa le patatine fritte, in assenza di madre e fratello. E sarà proprio quella friggitrice, evidentemente da troppi anni in servizio, a esplodere e a provocare ustioni di secondo grado a Sofiane. Il successivo ricovero in ospedale, con cui si apre il film, che vede Sofiane piangente e dolorante trascinato dal fratello Jean-Jacques nel carrello di un supermercato, sarà proprio il casus belli della mancata custodia e sorveglianza genitoriale a provocare l’intervento dei servizi sociali, e l’allontanamento per almeno sei mesi del bambino dalla sua adorata casa materna. Per cercare di riabilitarsi agli occhi delle istituzioni (in verità piuttosto persecutorie) Sylvie cambia vita: si trova un lavoro regolare che, però, la costringe fin da subito a ricercare (trovandola) appena assunta la solidarietà dei colleghi, perché il mercoledì è l’unico giorno in cui può incontrare il figlio in ambiente “protetto”. Ma proteggere da che cosa, poi? Da un amore fortissimo, ed evidente a tutti, che lega madre e figli in modo tanto commovente? Allora, con chi è cieco è lecito (e addirittura doveroso) barare? Indovinate quale sarà la risposta finale di Sylvie?
Voto 8/10
Aggiornato il 28 maggio 2024 alle ore 17:16