Anche Roger Corman se ne va “altrove”. Regista per palati capaci di gustare, autore di B-movie semplicemente geniali. Otto anni fa l’incontro a Locarno, in occasione del Festival internazionale del cinema. Vita e carriera di Corman possono essere sintetizzati in alcune cifre: una cinquantina di film come regista; almeno altri trecento come produttore; attore, spesso deliziosi cammei alla Alfred Hitchcock in una trentina di film di registi da lui ha scoperti e valorizzati: Peter Bogdanovich, Francis Ford Coppola, Joe Dante, Ron Howard, Martin Scorsese. Ma anche così, se si descrive l’attività di una persona che ha cominciato a bazzicare il mondo della celluloide nel 1953 (come produttore) e nel 1955 (come regista), spesso auto-producendo i suoi lavori per aver mano più libera, non si dice tutto. Corman, è sì considerato un maestro dei cosiddetti B-movie, quei film che non ti fanno guadagnare una stella nella Walk of Fame di Hollywood, ma sono pellicole che rispettano il budget, danno al pubblico quello che chiede, fanno anche guadagno. Quel guadagno che magari consente poi a qualcuno di fare i capolavori.
Corman, oltre ai leggendari B-movie, con la sua società di distribuzione ha fatto scoprire al grande pubblico statunitense molti film stranieri che altrimenti, forse, non avrebbero avuto diffusione: opere di Federico Fellini, David Cronenberg, Ingmar Bergman, Werner Herzog, Akira Kurosawa, Alain Resnais, François Truffaut, Hayao Miyazaki. A Locarno gli hanno reso omaggio con questa motivazione: “Corman è un nome che da solo evoca un modo di intendere e di fare cinema, espressione di libertà e di indipendenza. Oltre al piacere personale di accogliere una delle persone che maggiormente hanno influito su una grande stagione di cinema e di mostrare due suoi film poco visti, mi rende orgoglioso il fatto che abbia voluto legare la sua venuta all’incontro con i giovani cineasti della Filmmakers Academy, un progetto che è cresciuto enormemente e che bene rappresenta lo spirito del Festival di Locarno”. Anni prima, sempre a Locarno, una accurata retrospettiva-selezione sua produzione. La ricorda con una punta di nostalgia: “È stato bello rivedere tante pellicole di cui avevo smarrito il ricordo. Sono tornato ai tempi belli, quando lavoravo come un matto. Davvero ci davo dentro”.
Tanti generi, dall’horror ispirato ai racconti di Edgar Allan Poe ai western, dalla fantascienza alla commedia; e soprattutto con grande rapidità. Come ci riesce?
Come ci riuscivo. Ora mi sono seduto da un po’. C’è stato un momento davvero frenetico: la mattina giravo un film, il pomeriggio sceglievo attori e scene per il prossimo per il quale mi ero già impegnato, la notte montavo un altro film ancora. Certo, non pretendo di aver fatto capolavori, ma la gente che andava al cinema usciva contenta.
Non solo lo spettatore, visto che una sua caratteristica è fare film a basso costo e buoni incassi.
Fare un film è una cosa seria. Non ci lavora solo un regista o un attore. È una macchina che dà lavoro a tante persone. Il produttore ci mette del denaro. Mi pare giusto non sprecarlo, rispettare i tempi, e possibilmente far guadagnare chi ci investe sopra.
Però non è da tutti fare un film in due giorni.
Quella è stata quasi una scommessa. È andata così. Il produttore aveva affittato degli Studios, che però non erano utilizzati perché chi doveva lavorarci non era ancora pronto. Io avevo una sceneggiatura pronta. Vado dal produttore e gli dico: tanto non li usi, affittameli a basso costo per due giorni, ci guadagni tu, ci guadagno io, poi quando voi siete pronti vi lascio campo libero. Così è andata. Ma è stata una faticaccia, abbiamo lavorato giorno e notte. Alla fine, è venuta fuori una cosa comunque decente, anche se un mio amico mi dice: guarda che fare un film non dipende da quanto vai veloce. Non aveva torto.
Neppure fare un film utilizzando spezzoni e altri scarti?
Lei si riferisce a The Terror (La maschera di cera, ndr) del 1963. Allora avevo meno di quarant’anni, nel pieno delle mie forze. C’erano le scenografie di un altro mio film, The Raven, che mi sembravano troppo belle per buttarle via senza riutilizzarle. Il mio amico Boris Karloff aveva due giorni liberi già pagati dalla produzione. Con Coppola e Monte Hellman, che lavoravano con me, ci guardiamo in faccia, e ci viene l’idea di girare qualcosa. Non sapevamo bene neppure noi che cosa, e soprattutto non lo sapeva Boris, che stava facendo. È lì che compare un giovanissimo e sconosciuto Jack Nicholson che comincia con una lunga cavalcata in riva al mare, indossa una divisa mi pare francese, arriva in un castello e si trova a fare i conti con il fantasma di una ragazza bellissima. Una storia alla Poe. A Karloff gli facciamo fare naturalmente il misterioso castellano. Ma il divertimento prosegue: alcuni spezzoni del film vengono usati da Bogdanovich nel suo Targets. Insomma, non si buttava via nulla. Ma in quest’arte il più bravo è stato Joe Dante. Si vada a vedere il suo The Movie Orgy: è fatto da tanti spezzoni più o meno rubati, riesce a mescolare i mostri dei film dell’orrore anni Cinquanta ai western demenziali, le istruzioni vere trasmesse dalla televisione americana in previsione della guerra atomica, le comiche alla Gianni e Pinotto. Un piccolo capolavoro, durava sette ore, poi l’ha ridotto a quattro.
Resta comunque un mistero la sua rapidità.
No, guardi: è facile. Prima del primo ciak pianifico tutto. In testa ho ben chiaro quello che si deve fare. Una volta che sono a quel punto, il più è fatto. Poi, certo: a volte capita di accorgersi che quello che si credeva fosse buono, in realtà non lo è, e allora si deve cambiare. Ma fondamentalmente pianifico tutto, e le cose vanno lisce e tranquille.
Magari anche perché lavora con squadre ben collaudate?
Sì, certo, una buona atmosfera è indispensabile. Di solito cerco di creare un clima rilassato, dove si lavora, ma c’è spazio allo scherzo, alla battuta, al gioco. Così un po’ tutti ci sentiamo coinvolti.
Quasi tutti i suoi film sono auto-prodotti. È per avere più margini di libertà?
Anche. Però la verità è che all’inizio i produttori non avevano molta fiducia in me. E allora ho cominciato a racimolare del denaro, e ho prodotto i miei film. È stata una buona lezione. Quando hai budget ridotti, stai più attento, e insomma: Buona la prima. Poi, le dirò: quando giravo qualcosa pensavo: cosa mi piacerebbe vedere, se fossi io lo spettatore? Ecco, ho sempre pensato al pubblico, alla critica molto meno. Se uno esce dal cinema contento, dopo aver visto un mio film, ho raggiunto il mio scopo”.
Lei è stato definito “The Pope of Por Cinema”, per la sua abilità di produttore e per essere un punto di riferimento per una generazione di cineasti che non si uniformavano alle major hollywoodiane.
Chissà se è davvero così. Spero di meritarmelo. Sì, forse ho fatto la mia parte per quel che riguarda il reinventare il cinema di genere. Ma questo non lo chieda a me, lo vada a domandare ai miei colleghi.
Aggiornato il 14 maggio 2024 alle ore 16:07