Durante la presentazione e la discussione del testo di Giovanna Canzano veniva insistentemente enunciato, a proposito di Franz Kafka, il termine “radici”. Del resto, è nella denominazione del libro Le radici ebraiche nel pensiero di Franz Kafka. “Radici”, una parola evocata spesso per contrastare il vituperato sradicamento: in quanto vivremmo un’era sradicata, molti esigono e propongono il radicamento. E il radicamento può essere diversificato: religioso, culturale, localistico, persino alimentare, e quant’altro. Di fronte all’uomo, alle società standardizzate e seriali come le merci, aperte a tutto senza alcunché da tutelare di proprio, senza un’identità – appunto, la voglia di identità, di peculiarità – io sono io, noi siamo noi. Attingo, attingiamo dal passato, ossia dalle radici. E mi sviluppo, ci sviluppiamo con una coerenza accrescitiva delle mie, nostre radici. Detto in termini sociali: diventa ciò che sei e ti accresci, non sfalsandoti.
Durante il convegno è sorto un problema: Franz Kafka voleva mantenere, anzi ritrovare le radici ebraiche. Cosa significavano per lui, con quali effetti, posto che realmente cercasse di attingere alle radici ebraiche? E in quali tratti consisterebbero le radici ebraiche? Che insegne di riconoscimento detengono? Giovanna Canzano esponeva la situazione di Franz Kafka nel contesto di una famiglia di ebrei “emancipati”, come si dice, ebrei che intendono farsi considerare cittadini all’interno della nazione dove vivono come gli altri. La discussione sulla “emancipazione” risale a qualche secolo fa, e rientra nell’avvento dei sistemi liberali, allorché gli ebrei conquistarono i diritti degli altri cittadini, uscendo dai ghetti. Ma quei diritti li conquistarono diventando comuni cittadini o restando ebrei, ma con diritti pareggiati agli altri? Una emancipazione dall’ebraismo o dell’ebraismo? Un tema, questo, che ebbe un’intensissima animazione e animosità, da Karl Marx a Max Stirner, fino a Heinrich Heine, Mosè Mendelsshon, Arnold Ruge, solo per citare alcuni nomi.
Quando frequentavo la facoltà di Sociologia, in via Salaria, a Roma, collaboravo con Alberto Izzo, ordinario di Storia della sociologia, autore di un testo ben documentato e ampiamente usato. Izzo era ebreo di madre ebrea. Dunque vero ebreo, ma non credente. Anche il fratello era non credente, ma accudiva luoghi di culto, cimiteri e quant’altro. Alla mia domanda su come mai un non credente fosse “devoto” a una religione che non lo rendeva credente, Izzo mi dichiarò: per rispetto dell’identità, per le radici. Non mi convinse, allora. Adesso, però, sperimento personalmente questa cosa: non cattolico ma appassionatissimo cattolico culturale (e anche ortodosso), sia nella musica sacra, sia nell’arte figurativa di santi e non solo.
Allora, tutto risolto? Trasferendo la religione nella cultura, nel passato storico, nella tradizione, abbiamo messo i piedi nell’acqua nutritiva del nostro divenire. Siamo salvi? No, troppo semplice. È falso. E non coglieremmo la “tragedia” del nostro momento. La “salvezza” religiosa è tutt’altro che la salvezza come mantenimento dell’identità. Io posso vivere la passione culturale per il cattolicesimo, l’ortodossia in territorio estetico, ma non posso considerarmi “salvo” metafisicamente. Franz Kafka, di certo, non voleva essere soltanto un cittadino ma un cittadino ebreo, però non aveva la minima uscita di salvezza. E questa è la sua peculiarità: salvare l’identità, anche da non credente. Ma non ritenersi salvo. È il segno dell’onestà. Rendere la tradizione una salvezza, significa confondere la storia con la metafisica.
La faccenda riguarda anche noi europei. Possiamo non essere credenti ma non dobbiamo rinnegare la civiltà dei credenti. La religione è metafisica immessa nella storia: uno può non credere in Dio, ma non può cancellare quanto gli uomini hanno compiuto di strabiliante in nome di Dio. Per salvare la civiltà, anche se non salviamo la vita eterna. Ma vale anche l’opposto: non pretendere che se condividiamo una tradizione e la ammiriamo, siamo “salvi” metafisicamente. Per niente. Salviamo la civiltà ma esistenzialisticamente possiamo sentirci dentro la sfera senza uscita del Nulla. È la nostra condizione: nulla di metafisico ma salvare la nostra (di ciascuno) civiltà. E fu il dramma di Kafka: nichilista metafisico, ebreo “storico”.
(*) Le radici ebraiche nel pensiero di Franz Kafka di Giovanna Canzano, presentazione di Ariel Toaff, Solfanelli, 112 pagine, 10 euro
Aggiornato il 17 aprile 2024 alle ore 12:35