La scoperta del talento post mortem? Un noto dilemma archeologico, per cui una cosa può restare sepolta per sempre oppure, un giorno, se sei un regista denegato in vita, qualcuno, magari Diego (Silvio Orlando), un tuo collega famoso quanto fatuo, folgorato dal fulmine, può scoprire il tuo copione come se fosse una rivelazione divina. Lo spettacolo Ciarlatani, che va in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 17 marzo, per la regia di Pablo Remón (che è anche l’autore del testo), funziona o disfunziona un po’ così, a seconda delle interpretazioni. Una narrazione molto sincopata del fallimento nell’arte, soprattutto per quanto riguarda la coprotagonista, l’aspirante attrice un po’ guitta, Anna Velasco, figlia del defunto regista-cult Eusebio, che non disdegna i così detti “lavoretti”, precari e malpagati, pur di nutrire il suo sogno di celluloide. E forse, parlando di Ciarlatani, è una forzatura inutile voler dare una coerenza a qualcuno che scientemente la rifugge.
L’opera, pertanto, si offre al suo pubblico come farebbe uno spettacolo situazionale, anticlassico e dodecafonico, che narra di una guerra civile tra i grandi totem mediatici come cinema, televisione e teatro, in cui, giocando in casa, è quest’ultimo a vendicarsi degli altri due. E lo fa parlando dei propri guitti perennemente sull’orlo del fallimento e della crisi di nervi, comparandoli ai ricchi registi culturalmente insignificanti che fanno film e serial televisivi da grandi incassi. Nell’apparenza, sembra di vivere scene slegate e sincopate, simili a tanti laccetti da scarpe lanciati in aria come vermicelli, cui restano appese due paia di scarpe rosse, di cui una spaiata.
Simbolicamente, lo spettacolo tiene lo spettatore costantemente con il fiato sospeso, aspettando l’ingresso del mago che riannodi quei laccetti vaganti in una solida fune, alla quale ancorarsi per i significati che sfuggono. Così, l’unico legame certo che lega trasversalmente le tele incerate del troubadour (trovatore) di strada, che spiega al popolo minuto la storia del Roncisvalle, è il rapporto ancestrale tra una figlia attrice fallita e un padre regista di genio, ignorato dai produttori e morto prematuramente. Ed è la sua ombra a ingombrare i sogni di gloria della figlia, sottraendole persino nel sonno, travestito da buttafuori, immeritati premi (come il Davide di Donatello), per non aver mai né recitato, né diretto alcun film. E come rinsavire dall’arricchimento facile dei film di cassetta, se non “battendo la testa”, e risvegliandosi regista d’essai nel letto di una clinica di lusso? Quindi, niente di più ovvio che, a seguito di questa sua folgorazione, Diego riesca a convincere il suo ebbro e sballato produttore a stracciare un ambitissimo contratto con una star hollywoodiana, sacrificata al sacro altare (ma può un beone capirne il significato?) dell’ultima sceneggiatura di Eusebio Velasco. Altra mosca cocchiera di uno spettacolo che sfugge, è il peccato mortale del plagio, arricchito dal paradosso dell’autore che copia da una sorta di suo Doppio.
Del resto, dando retta a quel genio di Wilfred Bion, ben esistono “pensieri senza pensatore”, nel senso che questi ultimi agiscono come cavalli selvaggi nella sterminata prateria dell’etere, portati da un vento mentale cosmico, per cui due pensatori lontani fisicamente decine di migliaia di miglia, e sconosciuti tra di loro, possono benissimo “pensare simultaneamente lo stesso pensiero”! E potreste chiamare tutto ciò un “plagio”? La verità ultima è che, poi, non esiste un luogo-lacrimatoio migliore e più consolatorio del bancone di un bar e di un buffo barista kazako, padrone di un cane più strambo di lui, per confessare davanti a una copiosa mescita il proprio fallimento artistico ed esistenziale, trovando l’abbraccio e il perdono paterno nelle braccia di uno sconosciuto. Per la critica: a volte non basta un buon interprete per reggere il peso di un pentagramma che stenta a trovare le sue armonie.
(*) Le foto sono di Guido Mencari
Aggiornato il 07 marzo 2024 alle ore 13:06