“The Old Oak”: una quercia per amico

Che succede alla metà povera della ricca Inghilterra? Che è sempre più povera. Soprattutto quella fascia sociale corrispondente alle piccole comunità degli ex distretti minerari e delle piccole concessioni private per l’estrazione carbonifera, nate nei primi decenni del secolo scorso. Ex borghi di minatori, oggi semideserti e poverissimi, con le loro case basse e rosse, che stanno in piedi con gambe assai malferme, come la “Kappa” finale di Oak che inciampa e a stento si tiene su all’interno della cornice di una vecchia insegna. In quei luoghi dimenticati da Dio, vivono i residenti superstiti, figli di padri minatori, una volta forti, uniti e iper-sindacalizzati (ma sconfitti dalla storia e dall’economia). E sono loro, i discendenti di un orgoglio di classe ferito e sepolto, a ritrovarsi in un vecchio pub malandato, pieni di birra, di anni e di rancori mai sopiti. Loro, gli eredi spossessati di una società socialista dei minatori inglesi ormai scomparsa, oggi simile a un possente albero socio-economico male invecchiato e decrepito, spaccato in due dai fulmini del mercato e della globalizzazione. Di loro parla la storia che ha per titolo The Old Oak, la nuova, bellissima opera, struggente e malinconica, del regista Ken Loach, dal 16 novembre nelle sale italiane.

Un bel giorno, in quel monumentale albero mezzo andato, marcito dalle fondamenta ma testardamente in piedi, arriva una nuova linfa che viene da lontano, dai campi profughi siriani, con intere famiglie di donne bambini e qualche anziano, ai quali il Governo inglese ha concesso asilo politico, sistemandoli in alcuni ex immobili dei minatori. E non c’è nulla di peggio per i nuovi poveri della società del benessere di ritrovarsi in casa quelli ancora più poveri di loro, soprattutto se profughi stranieri senza mezzi e privi di una lingua comune per intendersi. E siccome non siamo nel Regno incantato di Oz, la magia non esiste per impastare con armonia e senza dolore storie tanto diverse, dove le privazioni socio-economiche dei nativi sono vissute addirittura come privilegi, agli occhi di chi ha visto i luoghi in cui è nato completamente distrutti. Infatti, come raccontare a quegli uomini e a quelle donne occidentali, induriti dalla loro condizione di povertà, i quartieri distrutti dai bombardamenti? Se non lo si è vissuto, non si può capire il terrore che si prova fuggendo dall’immane cumulo di macerie dove una volta c’era una nazione, in cui la storia del passato aveva disegnato una geometria perfetta e incantata dei luoghi, oggi completamente cancellata come a Palmira, rasa al suolo con i cannoni e la dinamite dalla follia iconoclasta dell’Isis.

E chi ha solo poco reddito, in una società delle metropoli opulente, globaliste e liberiste, vive come in un videogioco le drammatiche immagini che vengono da lontano di centinaia di migliaia di persone di qualunque età uccise, gasate, sepolte dalle macerie, assassinate nelle prigioni, in strada o nelle proprie case, davanti agli occhi dei figli, delle mogli, delle sorelle e dei fratelli più piccoli. Ma, come in tutte le cose umane, esistono linguaggi primordiali comuni, addirittura pre-linguistici, come il cibo; l’odore dell’altro; la percezione del dolore di chi soffre; la mano tesa per tirare su un ferito o offrire del pane; il lutto, in cui ciascuno ha il suo funerale e tutti provano lo stesso sentimento per il comune destino di mortali. E nel lutto, c’è chi apre la casa e offre cibo dolce in memoria del proprio defunto e chi, secondo la tradizione, organizzandosi spontaneamente in file commosse e silenziose, deposita fiori e messaggi di cordoglio sulla porta e sui muri di casa della famiglia colpita dalla perdita del proprio caro. I sensi, però, di cui tutti gli uomini sono dotati, loro sì che vanno ben oltre il Regno di latta di Oz, quando i corpi diversamente rivestiti si ritrovano in un refettorio in comune, dentro le stesse atmosfere di famiglia in cui le persone si toccano e la parola si parla, anche se le lingue inciampano nella rispettiva ignoranza. E poi, ci sono gli occhi: lo sguardo che vede la stessa raccolta di foto, in cui il sorriso di un bimbo, di una ragazza o di una donna stranieri è identico a quello di qualsiasi altro dotato della stessa natura umana, inglese o siriano che sia.

Poi, c’è l’odio a prescindere: un razzismo viscerale che è innanzitutto vendetta per la propria condizione disgraziata, in cui la melanconia è capace di distruggere l’impalcatura precaria e sempre un po’ casuale della solidarietà, messa su con enorme fatica e difficoltà da chi il Bene non rinuncia a costruirlo. Come coloro che mille anni fa fecero a mani nude le bellissime cattedrali gotiche, affinché chi non ha più nulla potesse ricomporre se stesso attraverso la pace delle immense navate e dei cori di preghiera, innalzati al comune soprannaturale, che porta nomi diversi di Dio. E, un piccolo angolo di divina pietas esiste per anche il protagonista di The Old Oak, che trova una cagnetta, poi una figlia e una sorella nella comune ricerca dello spazio del Bene.

 Voto: 9/10

Aggiornato il 10 novembre 2023 alle ore 12:43