“L’ultima luna di settembre”: una storia mongola

Una storia antica e moderna, in cui si parla di un digitale ultramoderno che unisce e di una meccanica tradizionale che, invece, tradisce. Non poteva ritrovarsi se non nella culla dell’umanità ciò che la modernità ha fatto scomparire con la sua pretesa di rendere tutto universale, negando il mistero del mito e delle tradizioni ancestrali. L’attore mongolo Amarsaikhan Baljinnyam (nella parte del protagonista Tulgaa), alla sua prima regia con il film L’ultima luna di settembre, da domani nelle sale italiane, ci parla di padri e figli in un modo diametralmente opposto al nostro metodo pedagogico, ipocrita e consumista al quale siamo ormai da troppo tempo abituati. Qui non ci sono genitori che assicurano ogni tipo di beni materiali ai propri figli pur di essere affrancati dalla responsabilità di educare, affidandone il compito ai social e alla società dei pari. Loro, infatti, i preadolescenti di oggi della globalizzazione, sono fin da piccolissimi affidati alle cure idiote, ripetitive e lobotomizzanti di devise digitali.

Invece lì, negli sconfinati orizzonti mongoli, dove la natura obbliga a una fatica che dura tutta una vita per assicurarsi con il duro lavoro soltanto la sopravvivenza, il rapporto genitori-figli è materializzato e cadenzato dalle cose da fare. Come tagliare il fieno per avere di che nutrire gli animali domestici nei lunghi inverni; portare al pascolo il gregge svegliandosi all’alba e accontentandosi di un pasto frugale, consumato in piena solitudine, con lo sguardo che si perde in paesaggi mozzafiato senza anima viva nei dintorni; raccogliere e tagliare la legna; prelevare l’acqua da un pozzo distante per le esigenze domestiche e degli animali da accudire.

Il protagonista del film è Tulgaa che, per sfuggire alla miseria e alla fatica, ha lasciato suo padre molti anni prima per andare a stabilirsi in città, diventando cuoco in un hotel a cinque stelle. Ed è lui, nel pieno tormento di una sua storia amorosa che gira male, a ricevere un giorno la chiamata dalla sua terra d’origine, per tornare ad accudire il vecchio padre ormai in fin di vita. In quei suoi gesti lenti e solenni di figlio devoto, avari di parole mentre deterge con un asciugamano umido il suo padre anziano e gli prepara un pasto caldo all’interno della sua povera capanna, passa il messaggio di sublime pietas rivolto a un Occidente che ha medicalizzato le fasi finali della vecchiaia, confinandola in luoghi estranei, chiusi e appartati per nascondere agli umani la vergogna della morte. Nel mondo del padre di Tulgaa non ci sono case, ma iurte, che si piegano e si trasportano sul dorso dei cavalli a fine stagione e colline da addomesticare, falciando per la scuola agraria il fieno che cresce alto e rado, prima che cali l’ultima luna di settembre.

Obbligazione paterna che il figlio decide di rispettare come un’eredità scomoda, rinviando la partenza fino alla fine del raccolto, che sarà garantito dalle sue braccia forti e giovani. Ed è nel pieno di quella fatica, in cui Tulgaa rischia la disidratazione per eccesso di concentrazione, che si vede offrire con gentile ironia un otre di acqua potabile da Tuntuulei (Tenuun-Erdene Garamkhand), un bambino di dieci anni straordinario e bellissimo, senza padre e affidato alle cure degli anziani nonni materni, che compare come per incanto sulla scena della mietitura in sella al suo cavallo.

Da qui, dopo una breve sequenza di alternanza tra odio e amore, matura tra le righe un vero e proprio rapporto filiale tra i due, coronato da una solida amicizia tra contadini, come accade fra i nonni di Tuntuulei e Tulgaa. Con grande abilità (arida di parole, sostituite dagli sguardi intensi e dalle espressioni fortemente marcate dei volti in primissimo piano), il regista unisce, non senza una palese sofferenza interiore, i due perni della tradizione mongola. La vecchia generazione transita per quelle nuove di Tulgaa e Tuntuulei, ben sapendo che nessuno di questi ultimi due manterrà il patto ancestrale di resilenza con quella loro terra natale, dura, bella e aspra, perché il mostro dello sviluppo globale che avanza sta rapidamente divorando anche quegli sperduti campi mongoli, estraendo dal cuore della terra il meglio della loro gioventù.

La tradizione e il folklore mongoli non possono più reggere alle condizioni dure che le hanno mantenute vive nei millenni. Ma il film vuole, comunque, lenire per un tempo breve questa tragedia del distacco, creando una temporanea ed effimera cesura tra il vecchio e il nuovo, pur nella sua atroce discontinuità. All’urbanizzato (per necessità, ma non pentito) Tulgaa, i nonni materni saranno felici di affidare il loro nipotino, prima che anche per lui si giochi il perfido destino del distacco, dato che di lì a breve l’analfabeta Tuntuulei dovrà essere affidato alle cure di sua madre che abita in città.

Per un breve tratto del racconto, le tre generazioni trovano una saldatura accanto a danze tribali, cibi dimenticati e solennità della parola data, con Tulgaa che accompagna il delizioso bambino nel coltivare i suoi sogni e la passione sportiva di giovane lottatore. E, poiché non c’è segnale per i cellulari e l’unica soluzione per avere un minimo di campo è catturare l’onda in piedi sulla sella del cavallo, issando al cielo una lunga pertica alla cui cima è annidato un vecchio cellulare di prima generazione, sarà proprio Tulgaa a trovare una soluzione geniale che consentirà alla piccola comunità locale di parlare con i propri cari lontani. Poi le ali si apriranno e i giovani uccelli torneranno a volare lontani dai loro nidi prendendo due direzioni diverse.

Aggiornato il 20 settembre 2023 alle ore 15:23