“Profeti”, il libro che ci separa

“Nemo profeta in Patria”. Tant’è vero che per scoprire l’Islam delle origini, con un salto all’indietro di quindici secoli, bisogna andare tra Siria e Iraq nelle terre del Califfato all’epoca della guerra civile siriana ed essere fatti prigionieri dallo Stato Islamico. Susan Dabbous nel suo libro Come vuoi morire? racconta la storia del suo sequestro avvenuto il 3 aprile del 2013, quando una troupe di giornalisti italiani venne rapita dal gruppo qaedista di Jabhat al-Nusra, mentre stava girando un documentario per la Rai. Assieme alla giornalista italo-siriana furono sequestrati il cronista Amedeo Ricucci, il fotografo Elio Colavolpe e il cameramen Andrea Vignali. Liberamente ispirato alla storia vera di Susan, uscirà dal 26 aprile nelle sale italiane il nuovo film Profeti, diretto dal regista Alessio Cremonini, con Jasmine Trinca nella parte di Sara, la giornalista italiana; e Isabella Nefar, nel ruolo di Nur; la foreign fighter che lascia Londra e gli studi per raggiungere il suo miliziano dell’Isis.

Dopo una breve cornice del prologo che comprende l’intervista a una miliziana curda (musulmana) che difende Kobanê, e la scena di una chiesa cristiana devastata e dissacrata dalle scritte dello Stato Islamico, arriva il dramma della cattura della troupe da parte dei jihadisti. Segregata in uno squallido compound semi-diroccato che fa da base del gruppo jihadista, Sara avrà il suo battesimo del fuoco, costretta a dormire sul pavimento, fare i suoi bisogni appoggiata sui muri sudici dell’edificio, sorvegliata a vista dai miliziani che le impongono di tenere il capo coperto da una rudimentale coperta. La giornalista prigioniera si potrà liberare di quel suo rudimentale velo integrale soltanto in presenza dello sceicco, il capo della comunità fondamentalista, che la minaccia di punizioni terribili, in caso di dichiarazioni menzognere o di essere una spia dei servizi segreti occidentali.

E sarà sempre lo “Sheikh” a decidere l’allontanamento di Sara dalla base dei miliziani riservata ai soli uomini, consegnandola alla foreign fighter Nur, moglie di un combattente, che avrà un ruolo centrale nella storia del sequestro di Sara. La sua carceriera, infatti, agirà sia in modo indiretto come “convertitrice”, per acquisire un’altra ambita concubina o moglie per il riposo del guerriero dei miliziani in guerra; sia come compagna quotidiana (e molto donna nelle modalità di approccio) con cui dividere i pasti, il bucato e un letto per dormire all’interno di una casa quasi “normale”, con bagno, camera da letto, cucina tinello e un angusto ingresso. Prendendo in prestito il titolo del bellissimo film La chiave di Sara, (che parla del rastrellamento degli ebrei francesi concentrati nel Velodromo di Parigi, per essere poi avviati ai campi di sterminio in Germania dal regime collaborazionista di Vichy), anche per la giornalista non credente si aprirà il terreno di scontro tra ateismo e fondamentalismo. Sara, cioè, sarà obbligata dalla sua reclusione forzata a ricercare l’apertura di un dialogo impossibile tra due mondi irraggiungibili, come quello dell’islamismo radicale chiuso, retrogrado e misogino, coniugato al suo opposto delle libertà democratiche laiche. Il tutto, nell’assoluto tormento e nel supplizio psicologico di giornate monotone e tutte uguali, tra imposte alle finestre sprangate con assi di legno dove non passa mai la luce del giorno; i colpi di mitragliatrice di chi si addestra; e infine le esplosioni notturne che fanno da corredo alle incursioni dell’esercito regolare per colpire le postazioni dei ribelli jihadisti.

Sullo sfondo e dall’esterno, si hanno gli echi indiretti della violenza fondamentalista sui prigionieri: torturati, sgozzati, smembrati e bruciati vivi anche se musulmani, condannati perché impuri, nemici e servi del Demonio. Invece, dall’interno del ménage coniugale di Nur, ci sono le percosse del marito, le preghiere di lei dall’alba al tramonto, che iniziano alle cinque del mattino con la veste bianca e l’immancabile rito di genuflessione sul tappetino della preghiera. La luce elettrica che va via alle dieci di sera e si riaccende soltanto alle prime luci del mattino. Le abluzioni di mani e piedi prima di iniziare la giornata di lavoro in casa, in base a un rituale immodificabile. Tutto questo nella più totale assenza di senso critico e negazione del libero pensiero imposte dall’assolutismo religioso della Jihad, per cui l’uomo, il marito, è il signore della casa e ha il diritto di disporre della propria moglie come se fosse una sua proprietà, mentre Allah veglia su tutti e ne conosce i pensieri come le azioni buone e malvagie. Nella storia atipica di prigionia si insinua il vettore subdolo della conversione e il processo di accettazione della convertita, nel tentativo di omologarsi a quell’assolutismo impenetrabile come l’unica, possibile via di fuga da un femmineo claustrofobico, in cui la luce della fede brilla solo dal lato sbagliato. Insomma, una sindrome di Stoccolma in cui l’identificazione con le ragioni del carceriere non sono politiche ma religiose.

Per Cremonini il protagonista è ancora il mondo variegato delle prigioni e le modalità perverse della prigionia, in cui il padrone indiscusso è il sistema e i suoi servitori che dispongono della Chiave della libertà per il prigioniero. Ma il problema collaterale è anche quello della prigione mentale in cui vive lo stesso carceriere, che non riesce mai ad andare oltre il suo aberrante orizzonte repressivo-educativo. Insomma, un film duro, ma che aiuta a prendere atto dei valori di libertà dell’Occidente che gran parte del resto del mondo non conosce.

Aggiornato il 26 aprile 2023 alle ore 17:40