Non si è mai troppo piccini per dare il proprio contributo! E questo in base al principio della palla di neve che, lasciata rotolare dalla mano di un bambino partendo dalla cima della montagna, si fa valanga a valle. Di questo in fondo ci parla l’interessante docufilm, o film documentario, Bigger than Us, candidato ai Cesar 2022 nella categoria Miglior documentario, che sarà proiettato nelle sale italiane da domani al 26 aprile, in occasione della Giornata della Terra. Il lungometraggio, prodotto da Marion Cotillard, è stato presentato al Festival di Cannes 2021 nella sezione speciale Cinema for the Climate. Diretto da Flore Vasseur, che ne è anche la coautrice assieme alla protagonista Melati Wijsen, il film ha come protagonisti gli stessi giovani ragazzi che raccontano in prima persona alla Wijsen le varie esperienze in giro per il mondo, principalmente in alcuni Paesi in via di sviluppo in Africa e America Latina. Vale la pena citare anche i loro nomi, malgrado siano perfettamente sconosciuti sia al grande pubblico che a quello di nicchia: Melati Wijsen, Memory Banda, Mohamad Al Jounde, Mary Finn; Xiuhtezcatl Martinez; Rene Silva; Winnie Tushabe.
A proposito di cambiamenti climatici e della distruzione conseguente degli ecosistemi in atto il tutto il mondo, il film di denuncia individua i disastri ambientali come una diretta conseguenza della divisione sociopolitica mondiale tra “Have/Have not”, per cui una frazione trascurabile della popolazione del pianeta possiede gran parte della ricchezza globale, rispetto ai restanti miliardi di persone. Questo a causa soprattutto del modello economico capitalista-finanziario che oggi accomuna il ricchissimo Global West alla parte più sviluppata (Russia, Cina e Paesi asiatici, come Corea del Sud e Giappone) del Global South per la corsa all’accaparramento delle risorse naturali e alla crescita economica illimitata. L’immenso, conseguente inquinamento per eccesso di attività antropiche di mare, cielo e terra è poi anche conseguenza diretta dell’aumento incontrollato della crescita demografica in continenti come Africa e America Latina. E proprio nelle loro megalopoli da decine di milioni di abitanti ciascuna proliferano quelle immense, orrende e sterminate superfetazioni periferiche urbanistiche denominate slums, favelas e baraccopoli, che non finiscono mai di crescere a causa dei livelli drammatici di povertà delle zone dell’entroterra. Con il corredo di violenza che tutti noi ben conosciamo, come il dilagare della criminalità e le guerre spietate tra bande per il controllo del narcotraffico e dello spaccio di stupefacenti.
Questa serie di fattori negativi concatenati nasce da un modello malato di iper-antropizzazione della Terra connesso allo sfruttamento non regolato né tantomeno governato delle sue risorse “finite” (!), da parte dei Paesi ricchi e delle imprese multinazionali sovranazionali. Per di più, il tutto sembra avvenire, per quanto riguarda il “saccheggio” delle materie prime e dei territori fertili, con la piena e consapevole complicità dei sistemi di potere e dei regimi locali iper-corrotti, che colludono con gli interessi economici del neocapitalismo mondiale, sia dell’Occidente, che di Cina e Russia in testa a tutti. Bigger than Us ci racconta alcune storie di questa lotta impari di Pollicino contro l’Orco, allorché il singolo individuo si fa carico in prima persona della responsabilità di cambiare la sgradevolissima realtà violenta che lo circonda e di provare a fare giustizia. I giovani attivisti sono impegnati in battaglie molto diverse tra di loro, agendo “dall’interno” delle loro realtà socioeconomiche, tribali e tradizionali. Le “macchie di colore” del patchwork Bigger than Us narrano del ripristino di un minimo di informazione corretta nelle favelas brasiliane, per poi saltare di continente con il boicottaggio dei siti degli impianti statunitensi (altamente inquinanti e dannosi per la salute) di frammentazione per cracking degli scisti basaltici petroliferi. Si ripassa poi in Africa, con il contrasto sociopolitico alla pratica iniziatica delle anamkungwi (anziane del villaggio), ancora molto seguita nelle comunità del Sud Malawi, per cui in base alla tradizione le bambine di dieci anni vengono isolate in siti remoti lontani dai villaggi e iniziate su come comportarsi con gli uomini, gestirli e avere con loro rapporti sessuali. Infine, si approda sul Vecchio Continente con il salvataggio di migranti nel tratto di costa che va dalla Turchia alla Grecia, in cui l’aspetto ad altissimo impatto visivo e devastante è costituito dalla discarica in cui vengono depositati i giubbotti (spesso criminalmente “taroccati”!) di salvataggio dei naufraghi.
Un modo documentale, crudo e diretto di dare voce a chi combatte in prima linea, ogni giorno, all’interno di realtà altamente disagiate, mettendo a rischio la propria incolumità, per provare a cambiare la società in cui vive. Un mondo fatto di multinazionali spietate, di spose bambine, di profughi in campi di fortuna, di migranti che attraversano il mare, di gang pericolose, e così via. Come in tutte le operazioni “particellari”, Bigger than Us costruisce per grandi macchie di colore il tessuto di Arlecchino in cui le storie raccontate si articolano, perdendo così del tutto di vista la vera trama sistemica sottostante, la tela del ragno rispetto alla quale non si riesce a focalizzare e qualificare l’animale tessitore. Ovvero: di chi sono le responsabilità? A chi spetta risanare e governare questi devastanti fenomeni? E quali sono le colpe politiche vere di chi lascia che si affermino giganteschi sistemi predatori (tali sono, nell’ordine: i traffici e lo spaccio di sostanze stupefacenti; lo sfruttamento degli immigrati; il lavoro minorile; le discariche abusive, e così via) nelle megalopoli e dintorni, per non parlare dell’accumulo e sepoltura di rifiuti industriali pericolosi in terra e nel mare.
E sono i veri, innominati e non qualificati responsabili politici a far sì che i continenti più ricchi della terra, come l’Africa e l’America Latina, risultino un ricettacolo di immondizie, povertà, desertificazione, carestie, sete e fame, permettendo (l’Onu che fa?) alle élite al potere di arricchirsi a dismisura. E tutto ciò a scapito di miliardi di persone alle quali quella terra e quelle risorse appartengono, per esserci nati e vissuti in quei territori ipersfruttati da soggetti privati e statuali a loro del tutto estranei e, giustamente, nemici. Nessuno che si chieda, in tutta questa retorica, il “perché” in trenta anni la Cina, da immenso Paese depresso quale era, oggi ha quasi raggiunto in benessere l’Occidente, pur con risorse di materie prime limitatissime e, invece, i continenti molto più ricchi di lei non l’hanno fatto, vedendosi costretti a esportare migrazioni epocali di molte centinaia di milioni di persone verso i Continenti benestanti? Il mondo come si vede sta in un piccolissimo guscio di verità. Solo che bisogna volerci entrare.
Aggiornato il 21 aprile 2023 alle ore 17:12