Ecco un libro che dovrebbe piacere ai lettori de L’Opinione, a partire da quelli che hanno vissuto (e a volte subito) il dibattito storico sugli anni a cavallo tra il 1922 e il 1945, fino a coloro che non hanno avuto modo di conoscere la vita degli italiani nelle colonie africane.
“Carmen e Attilio, una storia italiana” (Internòs, 2022) è soprattutto una lettura utile a evitare di cadere in griglie ideologiche preconfezionate. Il romanzo di Marco Papagalli (parliamo di un romanzo storico, nel solco di Alessandro Manzoni, Walter Scott e Lev Tolstoj) sarebbe utile anche agli studenti universitari poco inclini a indulgere in corsi di laurea tecno-scientifici. Potrebbe dare spunti interessanti a un ricercatore di storie nella Storia, ridando chance all’idea che scienza e umanesimo debbano essere integrate tra loro, per darci una visione migliore del mondo.
Di cosa scrive l’autore di “Carmen e Attilio”? Delle traversie dei genitori dell’avvocato Marco Papagalli. Se penso alle vicende che in quegli anni si schiantarono sui corpi e l’anima di milioni di persone, sbalzate in pochi mesi da un Continente all’altro, da una villa a un lager, dal credo nel paradiso stalinista alla Russia dei gulag, devo citare i percorsi di un mio nonno, orafo ambulante, poi partito a cercar fortuna nell’esercito regio in Abissinia, convinto che la sua paga andasse alla nonna, rimasta a casa con quattro figli piccoli, mentre lei rimase da sola senza ricevere una lira per tre anni, per un errore burocratico. Tornato a casa, fuggì sulle montagne inseguito da preti e carabinieri, perché comunista e protestante, e da lì a Parigi.
Cosa succede ai genitori di Papagalli? Anche loro si ritrovano in un’altra parte in un lampo, come nel teletrasporto della serie Star Trek. Attilio, il padre, nel 1938 si imbarca come volontario nella milizia fascista su una motonave della Tirrenia e sbarca a Tripoli. Non è un fascista, l’arruolamento è più motivato dalla necessità di fuggire da un amore, voluto dalla famiglia ma non da Attilio, e dall’influenza di racconti a volte esagerati coi quali chi aveva viaggiato in terre esotiche affascinava amici e parenti. Storie che avevano il potere di strapparti dal tuo mondo per emigrare Oltreoceano, oppure di rovesciare la vita, come successe al poeta Arthur Rimbaud, fragile e sensibile come una foglia al vento, che passò dallo scrivere versi immortali a una fuga nell’Africa orientale, dove si mise a commerciare e contrabbandare armi, prima di trovare la morte, ancora giovanissimo.
La qualità migliore del romanzo consiste nella descrizione della Libia e degli italiani che vivevano in quella nazione, così diversa ma anche simile in parte al nostro Paese (l’autore attinge agli archivi familiari: documenti, foto, i racconti paterni e materni). Ogni italiano emigrato aveva alle spalle un’altra vita e quasi sempre riuscì a costruirsene una seconda, lavorando duro. Poi arrivò la guerra, e tutto cambiò di nuovo. All’inizio del Secondo conflitto mondiale a Tripoli gli italiani erano 41mila, su una popolazione di 111mila abitanti. Il governatore Italo Balbo ipotizzava una massa di almeno mezzo milione di coloni italiani negli anni Sessanta, ma anche lui faceva i conti senza le variabili di un destino che lo colpì per mano amica.
La Storia ama nascondersi. Per esempio, perché nessuno in questi anni ha ricordato che la tratta di schiavi dalla Libia ricominciò il suo tragico corso alla fine delle guerre napoleoniche, quando le casse turche e libiche erano azzerate? La tratta durò solo pochi anni, perché poi si imposero le idee liberali sulla fine dello schiavismo, ma le incursioni di corsari da Libia e Tunisia sulle coste italiane proseguirono ancora.
Il racconto si snoda nella vita quotidiana pre-bellica di Attilio, tenente (capo-manipolo) della Milizia, in una Tripoli dove gli italiani vivevano bene e senza ostilità da parte dei libici, che forse preferivano comunque l’Italia alla esosa dominazione turca. Attilio era preso dall’attività militare, ma anche da quella civile, che allora per i giovani prevedeva una vita notturna più viva di quella attuale, imprigionata da web e tv. Le “case chiuse” erano molto frequentate, così capitava di avere una storia con una prostituta, di viaggiare per lavoro e per spirito di avventura lungo la via Balbia (un’opera di quasi 2mila chilometri che ancora oggi collega la Tunisia all’Egitto), di ritrovarsi nel deserto, di frequentare un porto che funzionava meglio di un telegiornale per avere notizie dal Belpaese. Contrariamente a ciò che si potrebbe immaginare, in Libia il clima non era infame. A parte i non molti giorni di ghibli sahariano, sulla costa c’era (c’è ancora?) una ventilazione continua con una bassa umidità.
In parallelo a quella di Attilio si svolge la vicenda di Carmen, figlia di un imprenditore edile siciliano, trasferitosi a Bengasi per fuggire dal pizzo della mafia, e perché invogliato dal sussidio economico che Benito Mussolini dava ai coloni. Bengasi a fine anni Trenta era stata rimessa a nuovo: il porto ricavato in una baia naturale era stato rinforzato e ammodernato per gestire il crescente commercio con l’Italia – legato soprattutto, incredibile a dirsi – alla fiorente agricoltura libica, ricca non solo per i famosi uliveti. Gli idrocarburi, la cui mancanza fu un fattore decisivo per la vittoria degli Alleati, in Libia non erano ancora stati scoperti. Oltre il porto si estendeva una grande salina, e poi – come corona di una spiaggia bianchissima – si poteva camminare sul lungomare di Bengasi, intitolato ovviamente al dittatore Mussolini. La passeggiata iniziava con due colonne trionfali costituite dal leone di San Marco e dalla lupa di Roma. Nel suk el Dlam svettavano chiese e moschee, mentre le baracche dei più poveri e il quartiere greco erano stati demoliti per creare ampie piazze per il palazzo municipale e per la Cattedrale. Case in costruzione ovunque, scrive Papagalli, così che la famiglia di Carmen aveva lavoro e una buona agiatezza.
L’autore, però, aggiunge: “Diversamente che in Tripolitania, dove le tribù stanziali berbere e arabe hanno più o meno pacificamente accettato il nuovo padrone europeo, i nomadi Tuareg e le fiere tribù beduine del Gebel cirenaico, di orgogliosa discendenza fatimìda (sciita, ndr), hanno mal digerito la colonizzazione italiana, vista come uno sradicamento dalle tradizione della qabila (la cultura tribale)… In particolare la confraternita islamica dei Senussi, concentrata nell’oasi di Giarabub, sotto la guida del mistico guerriero Omar Al Muktar, il leggendario Leone del deserto, oppose per anni una fiera resistenza all’occupazione, con continue azioni di guerriglia”.
Così il “Regio esercito faticava assai a contenere la ribellione di Senussi e tribù beduine con pesanti azioni di rappresaglia, tanto che solo tra il 1929 e il 1930 vennero scaricate ben 13.000 tonnellate di bombe sui villaggi dei rivoltosi della Cirenaica, e fu fatto pure uso di gas verso popolazioni inermi. (…) La rivolta dei Senussi si concluse solo nel 1931, con la cattura e l’esecuzione capitale di Omar Al Muktar. Finisce allora la completa normalizzazione della così detta così detta Quarta sponda”.
Ebbene, in mezzo a tutto quel bailamme, si deve dire che se in Libia non esisteva certo un “multiculturalismo”, la società era comunque internazionalizzata, tra italiani, libici, egiziani, francesi. Carmen ha diciannove anni e non ama le adunate cui erano destinati i giovani italiani. È una donna dal carattere forte, che cerca di lavorare e così rendersi autonoma, riuscendoci (a volte certe situazioni di quegli anni sembrano socialmente più “moderne” di quelle attuali). Su quest’atmosfera serena e tranquilla cala la Guerra mondiale: il conflitto in Libia viene descritto con particolari e dettagli interessanti e poco conosciuti, soprattutto nella parte finale, con l’Esercito regio che si ritira in Tunisia, accerchiato dagli angloamericani che avevano conquistato la Libia, e dai francesi che arrivavano dal Fezzan e dall’Algeria.
I due giovani si erano conosciuti nel villaggio colonico di Oliveti (vicino a Tripoli), dov’era sfollata da Bengasi, in seguito all’avanzata inglese, la famiglia di Carmen. In quei giorni sospesi vivono sospesi la loro storia d’amore, e si sposano quasi di corsa, prima che Attilio parta per il fronte, andando ad abitare nella Tripoli dove i bombardamenti cominciano a essere devastanti. Poi Attilio va in prima linea, mentre Carmen si trasferisce a casa dei genitori, anche loro riparati a Tripoli. I due sposi non si vedranno per tre anni. Carmen li passerà lavorando come assistente presso uno studio legale, mentre Attilio, fatto prigioniero, pagherà carissima la sua scelta di non fingersi antifascista. Lui preferisce la coerenza anche nell’errore, rispetto ai repentini voltafaccia di colleghi e di parte degli italiani in quei mesi e anni di dissoluzione e de-moralizzazione.
A questo punto inizia la seconda parte del romanzo, tra la vita di Carmen in una Tripoli dove gli italiani, finiti sotto l’Amministrazione inglese, sperano invano che almeno la Tripolitania rimanga sotto il controllo di Roma a fine guerra. In particolare, si affidarono al principe Suleiman Caramanli, erede di una dinastia che aveva governato per secoli per conto degli Ottomani. Caramanli risiedeva a Roma ed era un ufficiale dell’esercito regio: partì per la Libia, ma nel corso di una sosta a Tunisi subì una “vaccinazione” da parte di medici inglesi, su cui si disse molto. Morì dopo pochi giorni. Pertanto, la nuova Libia andò ai senussi della Cirenaica e al loro re Idris, legato agli angloamericani, il quale fu sovrano fino al 1969, anno del golpe di Muhammar Gheddafi.
Attilio era caduto nelle mani degli Alleati, dopo l’estrema resistenza dell’esercito italiano in Tunisia. Per lui iniziava un lungo calvario, con tappe in Algeria e in Inghilterra. Identificato come prigioniero “fascista”, venne inviato negli Stati Uniti, dove fu recluso in diversi campi di detenzione prima di finire in quello punitivo di Hereford in Texas, assieme ad altri 5mila prigionieri alcuni dei quali erano nomi di rilievo come il pittore Alberto Burri (anche Attilio era pittore), lo scrittore Giuseppe Berto, il generale Adriano Angerilli. Naturalmente Carmen, impossibilitata a rientrare in Italia fino al 1946, e Attilio riuscirono a comunicare solo con ritardi di mesi e sotto il controllo della censura. A Hereford si moriva di fame e malattie: Attilio riuscì a sopravvivere, solo perché non voleva perdere un amore che aveva fatto appena in tempo a sbocciare e mettere radici col matrimonio. Storie e Storia si incrociano fino al rientro dagli Stati Uniti di Attilio, e quello dalla Libia di Carmen, non meno complicato. L’incontro tra i due avverrà a Napoli nel giugno del 1946. Il romanzo avvince il lettore e si legge piacevolmente, grazie a uno stile elegante e lineare.
(*) Marco Papagalli, “Carmen e Attilio. Una storia italiana”, Internòs Edizioni, 2022, prezzo 18,05 euro
Aggiornato il 22 marzo 2023 alle ore 12:50