“La roba”: morire di lavoro

Di, e con la “rob(b)a” si può tranquillamente morire lo stesso, perché la morte non riconosce il regno dell’usuraio (quello che crea danaro a tasso zero e lo rivende a tasso dieci o cento) in cui l’uomo vive tutta la sua esistenza, comprando “roba”, ma anche le anime altrui e la loro esistenza, credendo di farla franca al momento in cui arriva la chiamata di Domeneddio! Di questo e molto altro parla l’affascinante spettacolo La roba di Giovanni Verga, attualmente in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 12 marzo, per la regia di Guglielmo Ferro e la magistrale interpretazione di Enrico Guarneri. Il protagonista, Mazzarò, è un grande proprietario terriero che non conosce altro che il lavoro, la fatica e l’arte della formichina che, con la sua riserva aurea del risparmio quotidiano e ossessivo briciola su briciola, si compra tutte le case e i granai vuoti delle cicale, come lo sono certi baroni siciliani che, da bravi “cretini”, si sono fatti derubare per tutta la loro vita da mezzadri e fattori, non avendo mai lavorato un solo giorno della loro esistenza e disprezzando il lavoro altrui perché non ne riconoscono né il valore, né il significato! Perché il loro senso della vita è dato dallo stemma nobiliare in marmo, inchiodato sulla chiave di volta del portale d’ingresso alla masseria patrizia, il simbolo vero che distingue il nobile dal pezzente.

Afflitto da un feroce perenne mal di testa, vero figlio e compagno inseparabile della sua vita, Mazzarò ne arricchisce il tormento aggiungendo ogni giorno sempre ulteriori preoccupazioni, per acquistare altra terra da coltivare e rendere fertile, utilizzando tutte le braccia che servono. E qui sta il punto. L’umanità per Mazzarò non ha altro significato diverso da quello di “manodopera” per coltivare i suoi campi, raccogliere le sue olive, le arance, le fave. Ogni altro aspetto, la malattia degli stessi lavoratori e dei loro congiunti più stretti, tutto è vissuto, filtrato e interpretato da Mazzarò come mero Instrumentum regni: mi serve la tua forza, la tua gioventù e la tua esperienza di lavoro finché ce la fai e godi di buona salute. Due cose colpiscono al cuore di questo bellissimo spettacolo: non serve sacrificare giornate di lavoro per acquistare medicine per chi, già anziano e malato, non ha speranze di guarire. Si fa solo l’interesse della “lobby” della cura: il cerusico e il farmacista del paesino catanese che, come il Gatto e la Volpe, l’uno prescrive, l’altro incassa e poi divide con il suo complice il bottino fatto sulle spalle di poveri contadini nullatenenti.

La seconda cosa è la scaramanzia del sangue: per definizione, le terre, le fattorie, i possedimenti di Mazzarò sono fatti di sudore ma non di spargimento di sangue o sfruttamento a morte dei braccianti impiegati. Quindi, un omicidio per motivi di gelosia, o una caduta mortale dall’albero di un ragazzo malato di malaria sono del tutto inconcepibili perché portano male a una terra sì assolata, ma non assassina. E i corpi degli sventurati debbono essere portati il più lontano possibile, fuori dei confini dell’impero terriero di Mazzarò, perché sangue semina sangue e maledizione porta maledizione.

La scenografia è perfetta per chiarire tutto questo: un enorme albero di ulivo, maestoso e solitario come il totem di Mazzarò, domina lo sfondo della scena, mentre tutt’intorno sono sparse grandi e piccole ceste di vimini per la raccolta, e l’intero palcoscenico è un aia disseminata di residui di fieno, con una panca da un lato dove si raccolgono le donne nella pausa pranzo, e un carretto per il trasporto delle masserizie dall’altro. Ecco, “la minestra” può o non essere ricompresa nel trattamento salariale della giornata di raccolta, perché il solo potersi sedere assieme agli altri per consumarla è un premio al lavoro stesso.

Degustazione che, come la “social dance” dei giorni di festa, è sconosciuta ed estranea a Mazzarò, al quale, con tutto il denaro che ha, basta solo poco pane per sfamarsi in una giornata intera di lavoro. E, nel suo caso, è proprio quest’ultimo, il “Lavoro”, la vera foglia di coca da fatica andina, buona da masticare giorno per giorno, finché c’è luce, quando non piove, contando le frazioni di giornata da riconoscere ai braccianti nel caso di pioggia. Nessuna pietà per la contadina ragazza madre, lasciata andare al suo destino sciagurato senza nemmeno una moneta da darle a conforto, perché il suo peccato carnale ne ha compromesso le facoltà lavorative, dovendo allattare un neonato e non avendo un marito che la sostenga economicamente.

La sacralità della morte, con i suoi riti funerei, è soltanto perdita di tempo e denaro per Mazzarò, che ancora ricorda i soldi che ha dovuto sborsare per far seppellire sua madre dopo una lunga malattia. Di qui l’angoscia assoluta, la ragione dei feroci mal di testa, perché chi ha così tanto sulla terra non può portare nulla con sé “dopo”, quando stramazza su un solo metro quadro della sua proprietà e, per di più, le cose che lascia non scompaiono con lui, mentre i suoi beni saranno smembrati da lontani parenti, come fanno stormi di condor sulle carcasse lasciate a marcire al sole. La tensione dello spettacolo è continuamente “alzata”, come si farebbe sotto la rete delle pallavoliste, da un coro di bravissimi attori giovani e meno giovani, praticamente perfetti nei loro costumi, nelle pause dei dialoghi, nei toni sempre giusti e misurati che sottolineano l’esatta cadenza dei fatti e delle situazioni rappresentate. Praticamente, un vestito su misura per il pathos della tragedia rappresentata. Da non perdere.

Aggiornato il 09 marzo 2023 alle ore 14:49