“Santa Lucia”: Vedi Napoli e poi…

Anche stavolta lo psicanalista Wilfred Bion, con il suo famoso saggio Pensieri senza pensatore, ha avuto ragione in merito alla piena “realtà del surreale”! Così, il mese di novembre in cui si celebra il rito dei defunti, è il tempo giusto per richiamare alla memoria coloro che hanno lasciato per sempre la vita, ma che rivivono attraverso il ricordo di chi li ha conosciuti, odiati, amati, uccisi, calunniati, osannati e derisi. Come fa Emma Dante con il suo Pupo di Zucchero, in scena al Teatro Argentina di Roma, che ci racconta di un vecchio e dei suoi fantasmi, con lui che vive solo nella sua grande casa vuota popolata una volta all’anno per la festa dei defunti dagli spettri dei suoi familiari trapassati.

Perché poi, volendo, nel libro dei morti sono registrate nell’Aldilà le presenze di molti miliardi di ombre, mentre Aldiquà sfuggono alle anagrafi dei viventi parecchie centinaia di milioni di persone sconosciute a se stesse. Così, talvolta, per scoprire “Chi siamo?” è meglio forse diventare ciechi anzitempo, pagando alla vita un prezzo altissimo, soprattutto se con quegli occhi si è diventati da vedenti uno degli scrittori più apprezzati nel mondo. Accadde realmente a Jorge Luis Borges, e succede così nella fiction anche a Renato (interpretato magistralmente da Renato Carpentieri), protagonista del bel film Santa Lucia del regista Marco Chiappetta, che vede come co-protagonista a pari merito Andrea Renzi (Lorenzo, fratello di Renato), oltre a una tenerissima madre e a una bellissima venere napoletana, dal nome danzante di Carmen, il grande amore di gioventù di Roberto.

La storia narra di un Roberto molto anziano e non vedente che, dopo aver lasciato per sempre la sua Napoli da oltre quarant’anni, intraprende da solo un doloroso viaggio di ritorno in occasione della morte dell’anziana madre, lasciando in Argentina la moglie e due figlie. Ad accoglierlo all’aeroporto il fratello Lorenzo, anagraficamente più grande ma restato misteriosamente giovane, che lo accompagna a riscoprire con i rimanenti sensi una Napoli deserta e solitaria (gli esterni sono stati girati al tempo della pandemia da Covid-19), in cui i colori, grazie all’abilità fotografica di Antonio Grambone, sono più adatti ai racconti crepuscolari dell’Ade che all’esuberanza e al caos eterno che contraddistinguono la vita dei quartieri vecchi della città storica.

Ma, per chi ritorna e senza più la vista a soccorrerlo, quella quiete innaturale è la benvenuta perché non ci sono che i propri passi da ascoltare, nonché i suggerimenti delle mani tattili per ricostruire visi e ricordare edifici di pietra e mattoni. Struggente è la rivisitazione passo dopo passo della casa dei genitori, dove si è cresciuti bambini e poi da giovani adulti. Così, con il semplice odore della carta ingiallita dal tempo, riesci a scoprire che quel tuo fratello, musicista e chitarrista dotato, ma senza successo nella vita, in ben quaranta anni non è riuscito a leggersi Mille anni di solitudine che tu gli avevi regalato nei vostri tempi più verdi.

Perché poi, sono in parecchi a stancarsene dopo le prime cinquanta pagine, visto che l’eccesso di fantasia e la densità assurda degli eventi fantasmatici, così come narrati dal Premio Nobel colombiano Gabriel García Márquez, sono fin troppo esasperanti per chi ha bisogno di storie lineari per appassionarsi alla lettura. Allora, per un vecchio cieco, si può animatamente dialogare e discutere con i fantasmi dei propri ricordi lontani, dando loro tridimensionalità, passionalità e voce, per tornare all’indietro nel passato di più quaranta anni prima, attraversando finestre spazio-temporali che si aprono all’improvviso dinnanzi agli occhi chiusi di un Roberto veggente.

E sono per lo più scene con Roberto stesso e Lorenzo bambini, in cui il più grande le suonava regolarmente al più piccolo perché lo considerava il “cocco di mamma”, a causa della sua salute un po’ cagionevole. Proprio per questo, un giorno che lo vede piangere per le angherie del fratello, la sua indimenticabile, dolcissima e giovane mamma gli regala a protezione, come segno premonitore, un “Occhio di Santa Lucia”: una pietra dura che si trova in fondo al mare, a suo tempo recuperata dal padre di lei pescatore. Così, nei dialoghi (scritti dallo stesso regista) con il fratello Lorenzo, Renato rivela la natura profonda dell’umano che è in lui e in tutti noi, se lasciata liberamente andare e non umiliata da convenzioni e pregiudizi. Perché, poi, per sfuggire da questa realtà sgradevole del quotidiano contemporaneo non c’è che lo strumento potente della fantasia, l’unica che possa leggere con il Terzo Occhio le cose invisibili e prevedere il futuro che verrà.

Belle le scene di Roberto giovane e di Carmen, la sua bellissima fidanzatina che gli invidiavano tutti i coetanei tranne Lorenzo perché, come ironizza ferocemente Roberto, a lui in gioventù piacevano le “chiattone”: quelle bene in carne, per capirci. Tutto il contrario della bellezza botticelliana e della figura sottile di Carmen, dea della sensualità e della napoletanità nei suoi caratteri più peculiari. Decine di volte si sente Lorenzo chiedere insistentemente a Roberto il “perché” di quella sua fuga senza più ritorno. Da chi e che cosa fuggiva per sempre quel suo fratello?

Dove si era creato nell’animo suo quel vuoto terribile che solo l’approdo in un continente così lontano e sconosciuto, per insegnare l’italiano agli autoctoni, ha potuto lenire creando una separazione di spazio e tempo da eventi che, con ogni probabilità, avrebbero portato Roberto alla pazzia e a rinunciare alla vita? Sarà proprio quel mare di Napoli, da cui milioni di anni fa è nata la vita, a dare la soluzione assegnando la croce con il nome giusto all’evento scatenante del dramma esistenziale di Roberto.

Aggiornato il 02 novembre 2022 alle ore 11:27