Un’appassionata riflessione sulla responsabilità del regista. La macchina delle immagini di Alfredo C., dell’autore albanese Roland Sejko, è un docufilm prodotto e distribuito dall’Istituto Luce-Cinecittà, premiato con il Nastro d’argento 2022, che racconta il punto di vista di un operatore italiano. Un uomo che ha amato e odiato due Patrie: l’Italia e l’Albania, a cavallo tra il 1939 e il 1950. Il film, che narra le vicende di Alfredo Cecchetti, è stato ammesso al Concorso Orizzonti Extra della 78ª Mostra del cinema di Venezia 2021. La storia prende il via durante l’occupazione italiana dell’Albania, il 7 aprile 1939. Numerosi coloni italiani si trasferiscono nel Paese. Quando la Germania prende il controllo del territorio albanese (8 settembre 1943) i militari fuggono in montagna e gli italiani sono costretti a lavorare per i tedeschi. Infine, con la liberazione (28 novembre 1944), il regime comunista trattiene alcuni connazionali, tra cui l’operatore cinematografico dell’Istituto Luce (interpretato dal 68enne attore romano Pietro De Silva). All’inizio del 1945, in Albania si trovano trattenuti 27mila italiani, tra reduci e civili. Alfredo C. è uno di questi. Sejko lo mette in scena e lo fa muovere all’interno di un deposito di pellicole. Qui ripristina una vecchia moviola, riassembla un proiettore e riporta, letteralmente alla luce, le preziose immagini raccolte tra il 1939 e il 1943. Come sottolinea François Truffaut, nel suo libro Il piacere degli occhi (edito in Italia da Minimum Fax), “fare il regista significa prendere decisioni dalla mattina alla sera, prima delle riprese, durante le riprese e dopo le riprese. Più queste decisioni coprono il ventaglio della creazione (cioè dalla scrittura del copione fino al lavoro sul tavolo di montaggio), più il film presenterà un aspetto controllato e personale”. Per queste ragioni, La macchina delle immagini di Alfredo C. rappresenta l’occasione per analizzare lucidamente il mestiere del cinema. Il 54enne cineasta Roland Sejko si laurea nel 1990 alla Facoltà di Storia e Filologia di Tirana. Dal 1991 vive a Roma e dal 1995 lavora per Istituto Luce-Cinecittà, dove attualmente è direttore della redazione editoriale dell’Archivio storico Luce. Scrive e dirige diversi documentari, che si caratterizzano per il riuso del cinema d’archivio. Nel 2013 vince il David di Donatello con il documentario Anija – La nave, che racconta l’immigrazione albanese in Italia, dopo il crollo del regime comunista nel 1990 e durante l’anarchia albanese del 1997. In seguito, dirige i documentari L’attesa (2015) e Come vincere la guerra (2018). È curatore artistico e autore dei filmati di numerose mostre di Istituto Luce-Cinecittà. È uno dei curatori del Miac, il Museo italiano del cinema e dell’audiovisivo a Cinecittà.
La macchina delle immagini di Alfredo C. è stato premiato nella categoria del docufilm. Partiamo da questa definizione.
Il docufilm è una forma del racconto cinematografico, che rielabora e unisce finzione e documentazione. Ma siamo in presenza, pur sempre, di un documentario. Un vero e proprio genere, che prescinde dalle convenzioni. Dagli anni Venti del secolo scorso il documentario è diventato la forma narrativa più potente al cinema. Un fatto è certo: il documentario consente più libertà di un film di finzione.
Come nasce questo film? La struttura narrativa prende il via dall’occupazione italiana dell’Albania.
Il film nasce come una ricerca sugli italiani in Albania. Dopodiché, conducendo ulteriori ricerche nell’Archivio centrale di Tirana, è emersa questa figura dell’operatore cinematografico Alfredo Cecchetti. È stata l’occasione per raccontare i due Paesi: l’Italia e l’Albania. Così è nato un film caratterizzato da una forma circolare del racconto. Un’opera che si basa su un loop narrativo che segue il meccanismo della memoria. Durante le lunghe ricerche negli archivi cartacei italiani e albanesi cercavo di trovare una chiave di racconto. E, come spesso succede, è arrivata per caso, quando tra le varie liste e documenti conservati nell’Archivio centrale dell’Albania, in un documento di rimpatrio, ho notato un nome che conoscevo: era quello dell’operatore dell’Istituto Luce in Albania. Alfredo Cecchetti non è un nome importante tra gli operatori cinematografici del Luce, appare solo nei documenti della sede dell’Istituto Luce a Tirana e a Roma, e nei titoli di coda dei documentari girati durante il fascismo a Tirana. Ora il suo nome, con tanto di firma, lo trovavo in un documento indirizzato al Ministero della Stampa, Propaganda e Cultura Popolare del Governo Democratico dell’Albania. “Il sottoscritto Alfredo Cecchetti, operatore foto-cinematografico presso codesto Ministero, chiede di essere rilevato dal suo compito per poter rimpatriare in Italia per ragioni familiari”.
Le vicende degli italiani in Albania sono quasi sconosciute.
La storia degli italiani trattenuti in Albania dopo la fine della guerra e l’arrivo del regime comunista è quasi dimenticata. È coperta dalla valanga degli eventi che ha travolto centinaia di migliaia di italiani in altri Paesi. Si tratta di migliaia di persone, diventate loro malgrado delle pedine di scambio in un gioco di potere del nuovo regime con l’Italia per il riconoscimento dell’Albania, per le riparazioni della guerra e per la ricostruzione del Paese.
Il film è un “gioco di specchi” diretto da un regista albanese che vive in Italia. E racconta il punto di vista di un operatore italiano che ha vissuto in Albania.
Sì. C’è una sorta di specularità tra le vicende di Cecchetti e la mia storia. Tanto è vero che alcuni critici hanno definito il film La storia di Roland S. L’uomo con la macchina da presa dei due regimi era il testimone per raccontare attraverso le immagini una storia caduta nell’oblio, una storia scritta in pellicola che, come la memoria, rischia di svanire.
Nel docufilm è presente un’immagine che colpisce molto. L’operazione di lavaggio delle pellicole. Prima di essere portate al macero, le pellicole vengono letteralmente cucinate. La celluloide viene separata dalla gelatina e dai sali d’argento. Così, la celluloide viene stesa al sole prima di essere tagliata. È un atto di distruzione. Una metafora della perdita della memoria.
Esatto. La cancellazione della memoria avviene attraverso la cancellazione della pellicola. L’acido toglie il nitrato d’argento. La sequenza usata nel mio film è tratta da Il Museo dei sogni (1949) di Luigi Comencini, che racconta la fondazione della Cineteca di Milano, avvenuta nel 1947.
Parliamo di due dittatori: il capo del fascismo, Benito Mussolini (tra Regno d’Italia e Repubblica Sociale Italiana è rimasto al potere quasi 23 anni) è inquadrato e nominato più volte nel film, così come il capo del comunismo albanese, Enver Hoxha, al potere per quasi quarantuno anni.
Rappresentano due immagini opposte e simmetriche del potere. Perché i dittatori, di qualsiasi tendenza politica, coltivano il culto della personalità. Una forma di idolatria sociale che esalta l’infallibilità del leader.
Il suo è un film che denuncia il delirio della propaganda. “La cinematografia è l’arma più forte”, si legge sotto un’imponente immagine che riproduce Benito Mussolini in una delle tante parate riprese dall’operatore Alfredo C.
L’affermazione mussoliniana in realtà è un motto che Lenin aveva espresso dieci anni prima del duce. Il film dimostra come il cinema di propaganda sia interessato a muoversi usando gli stessi metodi.
Un esempio di manipolazione mostrato nel film è il doppio passaggio delle navi che Mussolini mostra ad Adolf Hitler, durante la visita del dittatore tedesco a Napoli.
Certamente. I regimi cercano sempre di manipolare la realtà. Il loro obiettivo è ricrearla. Costituiscono l’esempio drammatico del concetto di fake news.
Lavorando all’Istituto Luce lei si confronta, quotidianamente, con uno straordinario patrimonio storico-memoriale.
Questa storia non poteva essere raccontata senza quegli immensi giacimenti di memoria che sono gli archivi cinematografici. Prima di tutti l’Archivio Storico Luce dove ho la fortuna di lavorare, e dove ho potuto eseguire ricerche su materiali eccezionali, alcuni dei quali inediti. L’archivio del film d’Albania, che conserva con premura la memoria visiva del Paese, ha avuto la stessa importanza nella costruzione della parte albanese, così come la ricerca in altri archivi da Londra a Mosca ha aggiunto altri preziosi metri di pellicola al film.
Che ne è stato di Alfredo C.?
Di Alfredo Cecchetti si perdono le tracce dopo il suo rientro in Italia. Gli italiani trattenuti in Albania rimpatriarono quasi tutti, a scaglioni, fino al 1950. Alcuni degli italiani restarono nelle carceri o al servizio del regime comunista fino ai primi anni Sessanta. Altri dovettero aspettare la fine del comunismo, nel 1991, per riabbracciare i propri cari. Di molti non si è saputo più nulla.
Lei ha vinto un David di Donatello per Anija – La nave e un Nastro d’argento per La macchina delle immagini di Alfredo C. I premi aiutano la produzione e la distribuzione del “cinema del reale”?
I premi aiutano la visibilità del film e rappresentano un importante riconoscimento. Sono, senz’altro, utili per continuare a lavorare con maggiore entusiasmo.
Qual è il processo di scrittura del suo cinema?
Il mio cinema prende spunto dalle immagini d’archivio. Così le mie storie hanno alla base sempre un’immagine. È un processo creativo che comprende la rivisitazione delle immagini. Ogni documentario ha una forma di scrittura diversa. Che parte sempre dalle sequenze di repertorio. È da lì che nasce tutto. Poi, la scrittura va avanti fino al montaggio. Il tavolo di scrittura è la postproduzione.
Il cinema è arte. Ma nasce, innanzitutto, come fatto tecnico. La moviola è costituita da nomi roboanti come rocchetto trascinatore, rullo dentato, specchietto di messa a fuoco, lanterna.
Alfredo C., quando torna in Italia, porta con sé una piccola lanterna, usata durante il montaggio, sul banco della moviola. È un omaggio al mezzo. Alla fisicità della pellicola. È un oggetto archeologico. Questa è un’opera di disseppellimento. Per queste ragioni, Alfredo praticamente vive in questo sotterraneo. Un luogo in cui tutto è precipitato. Chiaramente si tratta di una metafora della memoria perduta che va recuperata.
La macchina delle immagini di Alfredo C. tratta un tema fondamentale nel cinema: la responsabilità di chi filma.
Chi gira, chi muove la manovella della cinepresa, assume un impegno gravoso. Riprendere un gesto, uno sguardo, un movimento rappresentano degli atti di estrema responsabilità. Alfredo C., testimone di fatti storici e di svariati eventi di propaganda politica legati sia al regime fascista che a quello successivo, comunista, diventa il passepartout per riflettere sul senso e l’uso delle immagini: la responsabilità di chi filma e di chi le legge. “Ridare movimento al fotogramma” per riscoprirne i significati è l’intenzione che muove La macchina delle immagini, che è al tempo stesso anche un documento di storia del cinema pre-digitale, per quanto è specifico nell’inquadrare e raccontarne la natura analogica, la meccanicità.
Aggiornato il 02 novembre 2023 alle ore 17:02