“Parigi 13 arr”, il complotto del sesso

“Fissare le regole” per l’utilizzo dell’alcova. Sembrerebbe una riedizione del famoso contratto Onassis-Kennedy, che stabiliva minuziosamente i doveri coniugali dei futuri coniugi. Funziona nel grande, come nel piccolo, stando al regista Jacques Audiard che, nel suo ultimo film presentato a Cannes, dal titolo Parigi, 13Arr (in cui “Arr” sta per Arrondissement, suddivisione amministrativa circoscrizionale dei quartieri di Parigi Cité), nelle sale italiane dal 24 marzo, ci presenta un quadro delle relazioni umane, soprattutto giovanili, che assomiglia, per il numero di sorprese contenute nella personalità di ciascuno di noi, a un gioco di Poupèes russe.

La storia, infatti, che rappresenta un adattamento cinematografico dei racconti a fumetti di Adrian Tomine, Amber Sweet e Morire in piedi, contenuti nel graphic novel Morire in piedi, ed Hawaiian Getaway, contenuto in Summer Blonde, è una sorta di trefolo a quattro corde, tante quante sono le storie individuali di altrettanti personaggi, tre donne, Èmile Wong (Lucie Zhang), un’asiatica originaria di Taiwan, e le altre due “pure francesi de souche, Nora (Noémie Merlant) e Amber (Jehnny Beth). Assieme a loro naviga sperduto, nel ruolo di vittima-carnefice, un unico giovane maschio di colore, Camille (Makita Samba). Tutto ruota attorno al cardine narrativo fisico di una casa collocata nel popolare e abbastanza degradato 13Arr, con i suoi palazzoni di cemento alti quanto dieci baobab, e coinquilini che vanno e vengono come il professor Camille, che insegna letteratura al liceo.

Il vero, incontrastato protagonista è però il senso dell’irrequietezza giovanile, che scivola dal sesso sfrenato conquistato a caso sulle chat di incontri, ai rave-party e discoteche hard rock, dove si seminano le pasticche di “Meth” (o droga sintetica denominata metanfetamina), che aiutano a scendere nei recessi profondi dei segmenti neuronali, in cui i sentimenti appaiono ora profondamente alterati, ora chiaramente veri e rivelati. Poi, perfettamente aderente alla realtà, ci sono i famosi lavoretti, impieghi sottopagati e spesso in nero ai quali si trovano confrontati nelle grandi realtà urbane i giovani diplomati e laureati, alla ricerca di un lavoro per sopravvivere. Anche se alcuni, invece, di lavoro né cercano un altro, perché magari quello pur corrispondente al titolo di studio dà loro a stento da vivere, o non si trova in un ambiente sociale adatto.

Ma, l’interrogativo vero che si pone Audiard attraverso i suoi bravissimi attori è sempre quello, annoso, di che cosa sia oggi l’amore per i giovani. Un pancarte che sta su con gli spilli, appoggiato precariamente alla vita che scorre come acqua di fonte e non ritorna mai più indietro, o solida, invisibile roccia su cui poggiare il resto dell’esistenza formando una coppia stabile e una famiglia conseguente? E quale ruolo hanno in questa blogosfera genitori, parenti, amici e conoscenti? Chi sta nella giostra degli scambi e delle hot chat che scambiano sesso con parole? E perché l’esistenza moderna è così fluida, incoerente e complessa? Perché non ci sono i fattori aggreganti che identificano una generazione, come fu il 1968 per i baby-boomers?

Audiard, moltiplicando inflazionisticamente le scene di sesso, si diverte a provocare una vera torsione del rapporto tradizionale uomo-donna, maschio-femmina, indagando anche in modo piuttosto delicato la componente bisessuale, catturata attraverso la descrizione apparente della frigidità femminile, con suntuose immagini e primi piani rigorosamente in bianco e nero, perché, in fondo, la vita è un alternarsi inestricabile di chiaro-scuri e delle loro infinite sfumature! Ma l’Amore, sempre quello è, canterebbe un famoso stornello napoletano.

Non c’è, in fondo, altro dramma nella pellicola, all’infuori di malattie gravi e irreversibili dell’anziano, come l’Alzheimer, che una gioventù nevrotica si scopre non poter tollerare per la povertà di strumenti intellettuali e affettivi che la contraddistinguono, presi come sono dalla ricerca spasmodica della loro identità, soprattutto sessuale (monogamo; amore libero; bisessuale; monastico?), che non ammette deroga al principio ormonale che li sovrasta e li domina. L’accudimento dei propri cari della famiglia di origine, per le rondini che volano via molto presto dal quel nido spesso conflittuale, per studiare e lavorare in grandi città lontane, non è né un valore, né una risorsa, nel timore di un giudizio sempre severo dal quale tenersi accuratamente distanti, anche a dispetto dei rigorosi principi della tradizione.

Ma, così facendo, l’Aquilone deve fare da solo il conto con le correnti avverse o favorevoli, che ora lo abbattono e schiacciano verso terra, ora lo esaltano sulla falsariga dei deliri di onnipotenza, come quella di dettare le regole del sesso all’accondiscendente partner maschile che, con assoluta leggerezza, si innamora così cento volte senza mai, a sua volta, fare nido, per posarsi finalmente su una non-preda, in modo che divenga semplicemente la sua donna, o il suo uomo. Ma, nella realtà, non ci sono né fattucchiere, né pozioni magiche per costringere a sé qualcuno che non vuole o non lo desidera, che si cerca da sé disperatamente sperimentando sesso sempre insoddisfacente, per poi magari ritrovarsi in un parco, anni luce lontano dal posto (affettivo) da dove era partito, stordito dalla felicità e dall’inaspettata sorpresa. Tale e quale a quella di una vera dichiarazione d’amore finale. Film duro fino a far male e, allo spesso tempo, delicato e complesso. Ma non indecifrabile.

Aggiornato il 21 marzo 2022 alle ore 17:04