“L’ombra del giorno”: reducismo antifascista

Il Ventennio ad Ascoli. Come quello raccontato dallo spiraglio di un uscio appena socchiuso nel film L’ombra del giorno, con Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, per la regia di Giuseppe Piccioni, uscito ieri nelle sale italiane. Nel film si parla di un mondo in miniatura e allo stesso tempo specchio fedele della Nazione fascista degli Anni Trenta, in cui la Storia ruota attorno a una deliziosa Piazza chiostrata di Ascoli Piceno, leggiadra e leggera nella sua architettura di volte come le sue sorelle fiorentine brunelleschiane, in cui all’interno dell’area recintata si esibiscono in stereotipati esercizi ginnici ragazze in fiore e piccoli italiani e italiane, in ossequio all’imperativo fascista di “una mente sana in un corpo sano”, in pura salsa machista, per cui contava molto di più gonfiare i muscoli piuttosto che arricchire le sinapsi cerebrali. Esercizio quest’ultimo sempre troppo pericoloso per la sopravvivenza di un regime totalitario: meglio per il suo Dominus (singolo o collettivo) che un popolo dominato resti pregiudizialmente senza pensiero, in modo da non nutrire sentimenti critici ed eversivi verso il Regime denunciandone, limiti, malefatte e contraddizioni.

La storia è al tempo semplice e complessa, articolata com’è tra fanatismo delle camice nere e della sua polizia segreta, da un lato, e un irresistibile amore impuro tra un’ebrea, Anna/Esther (Benedetta Porcaroli), e un puro ristoratore ariano, Luciano (Riccardo Scamarcio), reduce ed eroe della Prima guerra mondiale che, in un’azione di guerra, aveva ucciso in un temerario assalto alla baionetta ben cinque nemici. Nella vita solitaria di Luciano, invalido di guerra e claudicante alla gamba sinistra, irrompe con passo discreto e felpato una giovane donna bella e misteriosa, palesemente colta e di alto rango, dallo sguardo irrequieto di animale braccato e costretta a mendicare un lavoro stazionando per un’intera giornata dinnanzi alle porte del ristorante di Luciano. E poiché a volte l’amore è un fulmine, in questo caso la saetta passa da cuore a cuore legando l’invisibile sentimento a un destino comune che solo la morte potrebbe sciogliere. Poiché il Fascismo è sempre lì, onnipresente, fuori e dentro le vetrate del ristorante per reprimere e vietare, attraverso la carcerazione preventiva, con le sue spie compiacenti e i servi di regime, per cui anche le più innocenti battute sulle condotte ignobili dei gerarchi e dell’amministrazione fascista rappresentano un crimine. Ed è allora che la cucina di Luciano diventerà un’oasi segreta di libertà, in opposizione discreta e silenziosa al mondo di fuori, come accadrebbe in un covo di potenziali dissidenti.

Anna entrerà a far parte a pieno titolo di quel piccolo universo, venendo ricambiata e protetta da quel gruppo di neo-carbonari che ne nasconderanno fino all’ultimo l’identità, soprattutto a seguito dell’adozione delle famigerate leggi razziali, destinate a colpire in primo luogo l’identità e le proprietà degli ebrei, che verranno non solo spogliati dei loro averi ma spinti ai margini della società civile. Chi insegna perderà il lavoro, così come tutti coloro che lavorano nelle pubbliche amministrazioni del Fascio, mentre ai liberi professionisti ebrei verrà vietata l’iscrizione e il mantenimento nei rispettivi Albi. In tal senso, è molto ben disegnata e piena di pathos emotivo la figura del vecchio professore di diritto (Antonio Salines, perfetto nella parte) che, avendo giurato fedeltà al fascismo per poter continuare ad acculturare i suoi studenti in merito al rispetto e al culto della legalità, è ospite fisso del ristorante di Luciano al quale si rivolge con argomentazioni sempre ricche di passione e di verità, che lo porteranno a sfidare apertamente il regime, non avendo più nulla da perdere come docente universitario in pensione.

Il suo contraltare, giovane, arrogante e violento, è rappresentato da Corrado (Costantino Seghi) un giovane apprendista, orgogliosamente e fieramente fascista, disposto a tutto per emergere e spia fidata per eccellenza, che metterà a rischio la vita di Anna e di suo marito, intellettuale antifascista francese, apparso all’improvviso e nascosto in cantina con la complicità di Luciano e del personale di cucina. Altro personaggio di sicura caratura, nella sua divisa nera e poi negli abiti civili del responsabile locale dell’Ovra, è Osvaldo (Lino Musella, sempre formidabile nella parte del cattivo), amico d’infanzia e d’arme di Luciano e che, di fatto, sarà il vero padre-padrone dell’andamento del ristorante, facendolo chiudere per una giornata, in occasione dei festini conviviali tra gerarchi fascisti, e avvalendosi di spie occasionali e organiche per spiare, tradire e denunciare ogni minimo accenno di discorso sovversivo da parte di commensali e personale di servizio.

A farne le spese, sarà anche il generoso capocuoco Giovanni (Vincenzo Nemolato), arruolato a forza per fare numero come carne da cannone, o preda per i lupi intrappolata nei ghiacci perenni siberiani in cui ebbe fine l’avventura fascista nella Seconda Guerra mondiale. L’Amore e le sue fughe, i suoi nascondimenti, la sua paura e terrore, alla fine avranno la meglio sul “monno infame” assordandolo, mentre la barca della salvezza si allontana, con il rumore silenzioso e premonitore delle decorazioni di stoffa strappate dal pettorale e gettate con disgusto nella sabbia, come simbolo di un reducismo profondamente deluso dalle promesse mancate del Fascismo. Lento, claustrofobico, ma bello.

Aggiornato il 25 febbraio 2022 alle ore 13:15