“La metamorfosi” di Kafka all’epoca del Covid

Che cosa c’è di più... “diverso” del salto inverso di specie, per cui il virus psicanalitico della mutazione passa dall’uomo all’animale? Al Teatro Argentina di Roma va in scena fino al 27 febbraio lo spettacolo La Metamorfosi ispirato fedelmente al racconto di Franz Kafka, per la regia di Giorgio Barbiero Corsetti, che ha scelto come protagonista il giovane attore Michelangelo Dalisi nella parte del povero Gregor Samsa. Un importante e ben congegnato impianto scenografico, assecondato da una macchina di scena nascosta, fa ruotare verso l’interno o l’esterno la sezione composta dalle due immense pareti della stanza dove vegeterà Gregor, in modo da collegarla all’altro ambiente principale della sala da pranzo, rispetto alla quale si volge la parte complementare della rappresentazione. Personaggi e attori si muovono a tratti come un’onda disciplinata, improntando passi armoniosi di danza collettiva (non dissimile da una social danse) e intonando canti sommessi e struggenti tutt’intorno allo spazio dove si muovono i protagonisti. Le due pareti visibili della prigione di Samsa sono sudice, scostanti e ripugnanti (che però, per lo sfortunato protagonista, coincideranno con il Mondo intero, la cui parola gigantesca appare in filigrana dietro l’intonaco delle pareti), fatta salva l’immagine di donna che spicca da un grande quadro (vivente) posto in alto nella parete frontale.

In questo caso, l’orrida tramutazione non è rappresentata dal mascheramento, ma bensì mimata da una serie di gesti coreografici e di movenze strane da parte dell’interprete principale, che si produce in vere acrobazie per arrampicarsi come un insetto sulle pareti della stanza! I personaggi recitano in terza persona, con un effetto plateale di interno-esterno (quasi un esercizio ventriloquo di prestigio dell’attore-personaggio, che però è anche il narratore di se stesso all’interno dello spazio scenico!) che permette a Barbiero Corsetti di tenere a mente e di propalare in direzione della Quarta Parete la parola scritta di Kafka. Nell’Autore, persino il complesso di Edipo (l’innamoramento reciproco tra fratello e sorella, o tra padre e figlia) si frantuma dinnanzi alla visione orrida della Mutazione di Gregor. Un simile evento ha la sua trasposizione fantasmatica (essendo impossibile una qualsiasi transizione “reale”) nell’animale-soggetto, disgustoso e orripilante, inteso simbolicamente a rappresentare l’immagine speculare di una psiche devastata dall’ossessione e dalla percezione di se stessi come “essere inutile”. E, a questo punto, quale dovrebbe essere il comportamento del resto della famiglia, formata da padre, madre, sorella Greta e “Tata”?

E soprattutto di quest’ultima, Anna, anziana domestica, fedelissima e malpagata, a servizio in una casa piccolo borghese come la loro, quando il figlio maschio, l’unico, si tramuta, per una metamorfosi senza spiegazioni, in “insetto” grande e disgustoso? L’opera teatrale diventa, così, una sorta di laboratorio sperimentale sulla “diversità”, che più diversa e disgustosa non si può! Ovviamente, tutto ruota in cima al perno dell’assurdo, attorno al quale iniziano a vorticare le convenzioni sociali, inquinando così la parola, dalla quale sono depennati i suoni, al fine di mantenere un minimo di decoro sociale. Chi è al corrente, dei membri della famiglia, compresa la domestica Anna, “deve” tacere. Ma, come si sa, il mondo esterno funziona alla stregua delle infiltrazioni d’acqua: prima o poi arrivano a manifestarsi all’esterno come piaghe scure, riaffiorando sulle pareti secondo immagini del tutto casuali, almeno in apparenza! Difficile chiudere la vergogna in casa, quando non si ha più di che vivere e bisogna ricominciare da qualche parte, praticando magari mestieri umili, come quello dell’usciere per il padre, o del subaffitto per coinvolgere nella relativa gestione l’intera famiglia.

Il dramma kafkiano incide come una ferita impossibile a rimarginare sulla giovane sorella Greta, costretta a chiudersi in casa, abbandonando il suo amore per il violino e per la musica e l’illusione di potersi un giorno iscrivere al Conservatorio, a causa della sopravvenuta indigenza e dell’enorme vergogna che prova, per quella imprevedibile, orribile disgrazia. Ma la spinta incontenibile di tre pignolissimi e petulanti pensionanti, di cui uno di essi mostra una vera passione per la musica invitando insistentemente Greta a suonare il violino, romperà come un’infiltrazione d’acqua quella diga impenetrabile di silenzio e perbenismo, grazie a un’ingenuità di Anna. Una che, poi, non sta mai ferma un istante, muovendosi da una stanza all’altra, incurvata dalla fatica, con passo claudicante e quasi comico. È lei, in fondo, l’Atlante che sorregge con tutte le sue esili forze un nucleo famigliare completamente allo sbando, occupandosi di quell’essere nuovo e disgustoso che, una volta, era un bel giovane pieno di talento e belle speranze, vera colonna portante di tutta la famiglia.

In altre messe in scena del passato (si veda la recensione di Anna K., interpretata da Giuliana Lojodice, e pubblicata su questo quotidiano nell’aprile 2010), è proprio la figura di Anna a essere posta contemporaneamente al centro e all’esterno del dramma. Nel caso citato, ad esempio, Samsa non si vede mai e tutta la scena si svolge in base ai gesti e alle parole di Anna K. È lei che parla a lungo con Gregor, mentre lui si nasconde sotto il letto per non farsi vedere, interpretando i suoi gemiti e sibili senza alcun significato apparente, per tradurli alla famiglia come volontà inespresse del giovane. Giocando così, in quel contesto amarissimo, la carta più difficile di tutte: l’ironia, come si farebbe con un unguento miracoloso, sparso sul corpo dell’ustionato grave. Nella rivisitazione citata, in fondo, come si può dedurre dall’opera di Kafka, Anna rappresenta l’enorme forza della “pietas” umana che sa far di conto sentimentalmente anche con la mostruosità, relativizzando, minimizzando.

Perché la vita è fatta di molti vuoti e di pochissimi pieni, in fondo. Come la routine di colei che arriva al mattino presto, per iniziare i suoi servizi, fino a giungere alla sera, stanca morta. Tanto, probabilmente, non l’aspetta nessuno a casa, perché, a quanto sembra, l’unica che sente sua è, alla fine, quella dei suoi datori di lavoro che le danno ordini solo per sentirsi importanti, mettendo il bavaglio alla loro inferiorità vera, che non consente nemmeno un gesto di affettuosità nei confronti sia del figlio deforme che dell’anziana domestica, la quale, come tutte le persone veramente libere, non ha peli sulla lingua e dice in pubblico quello che pensa e sente veramente. Tenere in ordine e pulita la stanza-nido di un essere metamorfizzato fa da eco a quei drammi tremendi e silenziosi di quelle famiglie che nascondono in casa un figlio cerebroleso, del tutto invalido e completamente non auto-sufficiente e di cui hanno insuperabile remore a sporcarsi le mani, rifiutandosi di occuparsi materialmente della cura del suo corpo e di pulire essi stessi il giaciglio in cui lasciano che vegeti quella creatura sfortunata.

E lei, la domestica, interpellando quasi normalmente il mostruoso da sé, apre le porte ad un mondo altrettanto diverso, in cui la cura del male è il male stesso, in un rincorrersi di solitudini e d’impotenza mascherata da spocchia, che fanno degli esseri umani tanti gusci vuoti, in preda alle correnti imprevedibili della vita. Anna, volendo, è a suo modo la figura di ancoraggio, l’ultimo baluardo che ci trattiene sulla terraferma, per non essere inghiottiti dalla spirale delle nostre incontenibili paure. Anche se, poi, assecondando il cinismo e il perbenismo della famiglia di Gregor, felice e finalmente rinata dalla sua morte per volontaria consunzione, si assume l’ingrato compito del becchino-smaltitore delle spoglie mortali (animali?) del proprio figlio e fratello. Non vi sembra un bel ritratto dell’umanità attuale?

La metamorfosi

di Franz Kafka

Mondadori Libri, traduzione di Ervino Pocar

Adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti

Con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano,

Gea Martire, Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Francesca Astrei, Dario Caccuri

Teatro Argentina, 5 - 27 febbraio 2022

Produzione Teatro di Roma - Teatro Nazionale

Aggiornato il 12 febbraio 2022 alle ore 09:50