“Fiori d’acciaio”: quando si rompe la corda

Un prototipo di Gineceo? Un salone di parrucchiera in una ridente cittadina campana, gestito e frequentato da decenni da sole donne, e sempre le stesse. Questo, infatti, è lo scenario prescelto (corredato da una armoniosa ambientazione scenografica, aperta leggera e piena di colori vivaci) per la rivisitazione teatrale dell’omonimo film, Fiori d’Acciaio, tratto dal dramma teatrale di Robert Harling, per la regia romana del duo Michela Andreozzi e Massimiliano Vado, che sarà in cartellone alla Sala Umberto di Roma fino al 20 febbraio. La storia, in fondo, è lineare e al contempo contorta come la vita stessa e riguarda sei protagoniste, ognuna con il proprio vissuto e corredo caratteriale. Marilù (Tosca d’Aquino) è moglie di un personaggio invisibile ma del quale si sentono i continui, martellanti spari a salve per allontanare gli uccelli che si nutrono dei fiori di limone, il cui albero però è anche confinante con il giardino della ricca e altrettanto irosa Lucia. Quest’ultima, interpretata da una bravissima Emanuela Muni che dà una forza travolgente alla sua recitazione iper accentata, è una brillante caricatura di popolana arricchita, con una lingua tagliente e perfida nelle battute ma, come si vedrà, dal cuore tenero simile all’interno edibile di una pianta spinosa. Marilù è, però, anche la sfortunata madre di Stella (Martina Difonte), che sta per sposarsi e vuole a tutti i costi un figlio, ben sapendo che potrebbe costarle la vita a causa di un grave diabete giovanile.

Il contraltare di Lucia è l’algida e imperturbabile Clara Aiello (Giulia Weber), benestante vedova di un ex influente sindaco della cittadina, l’unica in fondo che sappia opporre il suo imperturbabile humor inglese alle intemperanze ruspanti della sua collega di vedovanza, avendo Luisa (e si capisce bene come e perché, tenuto conto del suo carattere dominante) già seppellito ben due mariti. Classico cliché che, nella vita è un fatto acquisito, dato che statisticamente le donne hanno una vita media superiore a quella degli uomini. La titolare del negozio è la bella e spregiudicata Tamara (Emy Bergamo), che recluta come assistente la spagnolissima e religiosissima Aa (Rocio Muñoz Morales) che, però, viene da una disastrosa esperienza morganatica (mezza sposata e mezza no, dato che si coprirà che il matrimonio non è valido) con un poco di buono, sospettato di avere legami con la Camorra, che l’ha raggirata, sedotta e abbandonata, portandole via tutti i suoi pochi averi. Nel gineceo, al quale si adatterà perfettamente, emotivamente e socialmente grazie alla sua innata bontà, Aña rinasce a una nuova vita, assistita dalle attenzioni premurose di Tamara e dai consigli delle sue amiche di sempre delle quali entrerà a far parte integrante.

Gli uomini, invece, non solo non si vedono, ma letteralmente non ci sono o si eclissano nei momenti di grave bisogno, perché in fondo, oggi come ieri, i muscoli d’acciaio (psichicamente parlando) sono una prerogativa dell’altra Metà del Cielo al femminile. Così, il giovane marito di Stella non sa opporsi alla volontà della moglie di avere un figlio, ben sapendo che i rischi sarebbero stati molto alti. Allo stesso modo, il padre di Stella non pare minimamente in grado di dare conforto e il necessario sostegno affettivo a Marilù, dopo la drammatica perdita della loro figlia, che solo sua madre ha saputo accompagnare e amare profondamente dalla nascita, fino al coma grave e poi alla morte. E la vicenda delle sei amiche si presenta come una storia composta di un prima e di un dopo, in cui nella prima parte le punture di spillo, le ironie sagaci e i pettegolezzi di paese rappresentano una sorta di giocosa giostra dell’infanzia, con tanti cavallucci, macchinette e asinelli di foggia diversa, dai quali salgono e scendono le sei protagoniste. Con Stella che tenta di accasare la ruvida Lucia con uno spasimante attempato e dimenticato da tempo (cosa che, poi, si verificherà dopo la sua prematura scomparsa), mentre si interessa di moda e di corredo nuziale assieme alla madre e alle sue amiche inseparabili.

Così, nella seconda parte, lo scollinamento del dramma avviene attraverso l’improvvisa riscoperta del paradosso di due amiche che si litigano ferocemente senza una ragione o un motivo scatenante, componendo così attraverso i loro gesti insulsi e incontrollati un rimedio buffo (come una persona che ci cade goffamente dinnanzi) che, come un obice, proietta le afflitte verso un riso liberatorio e prorompente, per una riapertura ante dramma del gineceo. Evidentemente la sola casa di cura, questa della parrucchiera fidata, in grado di fornire una risorsa e uno strumento adeguati per l’elaborazione del lutto, affinché l’Uroboro della vita, in cui Fine e Inizio combaciano al termine apparente del circuito vitale, faccia sì che la sua eterna circolazione non si fermi mai, tra lacrime e sorrisi. Come deve essere, in fondo.

Fiori d’acciaio

In scena fino al 20 febbraio 2022

Produzione: Corte Arcana/Isola Trovata

Regia: Michela Andreozzi, Massimiliano Vado

Autore: Robert Harling

Protagonista: Tosca d’Aquino, Rocío Muñoz Morales, Emy Bergamo

Durata:120 minuti

Numero atti: 2

Anno di produzione: 2021

Aggiornato il 08 febbraio 2022 alle ore 10:30