Una questione d’Honoré: Balzac apprezzerebbe la riduzione cinematografica della parte centrale del suo capolavoro Illusioni perdute (in uscita nelle sale italiane il 30 dicembre) del regista Xavier Giannoli? Una cosa è certa: si sorprenderebbe per l’eccellente e originale interpretazione di Benjamin Voisin (davvero illuminato per la sua giovane età!), nel ruolo dello sfortunato, quanto estroverso e caparbio protagonista del romanzo. Quel giovane Lucien Chardon de Rubempré, poeta mediocre, giornalista quasi-futurista, amante di una matura nobildonna, a sua volta troppo amante del proprio status per lasciarsi confondere dall’abbraccio della gioventù. E, grazie al genio espositivo di Giannoli, è Benjamin a dare una grande anima al suo personaggio, senza però trovare una risposta, né sul set, né nel backstage, di quali delle due, la nobildonna e la ragazza del popolo, avrebbe amato di più il suo personaggio.

Un film in cui si fanno auto-avverare alcune, fondamentali profezie di Balzac, come quella simbolica delle anatre starnazzanti (non per nulla, nel XX secolo il periodo Le Canard Enchainé ha fatto la fortuna dei suoi editori!), che scorazzano in maniera un po’ idiota nella grande sala di una redazione in cui accade di tutto. Un vero palcoscenico inchiostrato dove si mette in bella mostra l’infinita fame di vita della gioventù che la frequenta, tra liti, copule, fogli che volano incessantemente in aria, scimmiette che fanno il triage dei libri di autori famosi da recensire e denaro, tanto denaro, che appare e scompare tra i fogli freschi di stampa. Un mondo della libera stampa frutto dell’invenzione di un capitalismo nascente e sfrenato, senza regole, in cui chi ha denaro compra davvero di tutto: dal successo in teatro di autentiche oche giulive, alle recensioni accomodanti, come il loro esatto contrario.

Perché lì, dove la scrittura si fa plurima, selvaggia, immorale, ambigua e corrotta allora davvero può accadere di tutto. Amici che tramano come veri nemici: nemici che soccorrono chi amico in apparenza non è, in nome e a beneficio del riconoscimento universale della superiorità dell’intelletto e della cultura, che non potranno mai passare per gli altissimi comignoli dei crematoi del Dio Denaro! E, poi, quel volo di piccioni viaggiatori, che lenti ma tenaci arrivano fino in Inghilterra, allargando il giro d’affari dei pettegolezzi e delle maldicenze, veri anticipatori del metodo mafioso dei pizzini (minuscoli foglietti vergati con mani incerte e semianalfabete dei capobanda e dei grandi boss mafiosi, per ordinare mattanze o accordi d’affari) e, soprattutto, dei famosi, odiosissimi post e degli infiniti, inutili messaggini scambiati sui social, che viaggiano veloci come la luce per portare in ogni angolo della Terra il loro Nulla interiore. Lucien con la forza della perdizione lascia cadere dall’alto, come una domanda senza risposta, un interrogativo sotteso e taciuto, ma assai balzacchiano: “Se il Denaro dà valore a ogni cosa, allora ogni cosa può essere sopravvalutata o sottovalutata. Ma allora, ogni cosa non ha più un suo valore intrinseco. Tranne ciò che non si può comprare, come la passione d’amore”!

E sempre alla moda di Balzac: che cos’è un “Déraciné”, un “Senza radici”? Di certo, non colui che abbandona un luogo dove a risiedere è “solo” la sua Anima (la tipografia della sorella e del cognato, dove il giovane Lucien lavorava per mantenersi); e nemmeno le vere radici sono lì dove ha la culla soltanto la sua Mente, alla disperata ricerca di un editore parigino per il suo primo libro di poesie Les Margherites, concepito negli intervalli tra gli incontri clandestini e di sesso felice, in aperta campagna, con la sua amata nobildonna. No, le vere “radici” si trovano dove Mente e Anima vivono sotto lo stesso tetto: il seno di una donna, in particolare, come quello dell’amore bohemien e puro per Coralie, ex prostituta di strada, attrice provetta e amante straordinaria. Così, Lucien non abbandona le sue radici con l’allontanamento dalla provincia e dalla campagna in cui è nato, perché il dualismo Mente-Anima fa sì che il suo habitat naturale sia il caos creativo di Parigi. E qui, in effetti, l’inversione valoriale si fa impressionante: la campagna non ha più nulla da esprimere con la sua nobiltà decadente, mentre nella grande città, come la Parigi dell’epoca, fiorisce caoticamente ogni idea di futuro e di progresso culturale, materiale, sociale e scientifico che inciderà sui futuri 150 anni di storia, fino alla Seconda Guerra mondiale.

Un gran film su di un’epoca che preannuncia e precede, con gli stessi vizi e le rare virtù, l’avvento di quel Quarto potere mediatico e giornalistico che è il sale e, al contempo, il veleno della terra, in quanto laboratorio della politica corrotta e dei voltagabbana come Lucien, che passano dal campo repubblicano a quello monarchico seguendo il miraggio di un titolo nobiliare che mai verrà. Tutto il contrario di questo nuovo secolo sterile e confuso, sideralmente distante da quello germinativo di inizio Ottocento. All’epoca immediatamente precedente alla Restaurazione imperiale francese, tutte le idee della modernità, con i suoi drammi e le sue perversioni, permeano il quotidiano di artisti, autori ed editori come una sinfonia diabolica. A Lucien è dato di vivere un glorioso decennio post-rivoluzionario e post-napoleonico, che vede la fioritura inarrestabile della parola scritta veramente libera in migliaia di piccole testate, in cui progressivamente l’articolo e l’articolista si allontanano dalla missione primaria della cura linguaggio e della ricerca culturale. Con loro e sopra di loro, si instaura una sorta di mercato parallelo delle opinioni, delle critiche e delle cronache scandalistiche addomesticate, governato da personaggi spregiudicati come Dauriat (Gérard Depardieu) dove tutto si compra e si vende al miglior offerente.

Così, anche la claque teatrale (autentica allegoria della politica contemporanea!) che fa e disfa successi e insuccessi, “indipendentemente” dalla qualità degli attori e della pièce, è un piccolo capolavoro di impresa capitalista, con figuranti che applaudono o rumoreggiano al comando di un temutissimo direttore occulto, Singali, interpretato da Jean-François Stévenin. Un finto anonimo, Singali, visto che il suo vero potere è quello di mostrarsi in pubblico a viso aperto, avendo prima riscosso dal magnate che intende fare di un’oca una Duse, per poi tradirlo avendo spuntato un prezzo migliore dai nemici di lei e di lui. Infine, il fascino oscuro dei salotti in cui nobili e aspiranti tali si fanno notare per l’esercizio sofisticato del colpo basso, dell’odio velato da un sorriso e da un galateo impeccabile, per demolire psicologicamente il parvenu e costruire storie di infedeltà, tradimenti e follie eccentriche, in netto anticipo sulle terrazze della nobiltà decaduta e della borghesia rampante della Roma bene, come ne La Terrazza di Ettore Scola, o nella Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Come osserva Benjamin Voisin nel suo breve giro di tavolo con la stampa, “suoi social si mostra tutto di sé, tranne ciò che si è veramente”. Perché poi la vera scoperta dell’Io e del Sè passa per il rapporto “fisico” diretto il cui lo sguardo, il gesto sono davvero tutto ciò che conta: nella vita, come sul set.

Aggiornato il 23 dicembre 2021 alle ore 11:35