“Posso certamente definire me stesso un antidemocratico, ma non posso definirmi antiliberale. Infatti, io sono contrario alla pura democrazia proprio perché sono un liberale. Io credo che la classe dirigente non dovrebbe essere monolitica e omogenea, ma dovrebbe consistere di elementi che sono diversi circa l’origine e gli interessi; invece, io guardo il potere politico come pericoloso e incline a diventare oppressivo quando esso si genera da un’unica fonte, fosse anche il suffragio universale. Il giacobinismo democratico è una dottrina illiberale proprio perché esso subordina tutto a una singola forza, che è la cosiddetta maggioranza, sulla quale non pone alcun limite”.
Così Gaetano Mosca in una sua famosa intervista del 1904, ancora di evidente attualità. Come abbiamo detto nelle scorse puntate – siamo arrivati al capolinea di questo trittico di brevi articoli – l’elitismo e la scuola austriaca possono convergere, nella misura in cui esse studiano rispettivamente l’aspetto sociologico e l’aspetto economico dei fenomeni politici. L’analisi che Mosca fa in questa intervista è molto interessante. Al contrario di quanto si potrebbe dedurre da un’analisi superficiale, i regimi statali e democratici non assicurano il pluralismo del potere. Ci si potrebbe imbattere facilmente in questo errore intellettuale (e infatti ciò avviene regolarmente) dal momento che in democrazia appare che chiunque possa candidarsi ed essere votato dagli altri cittadini. Eppure, questo semplice strumento – il suffragio – non basta per garantire il pluralismo e l’autentico progresso, anzi più facilmente li ostacola. Se la lezione impartitaci dall’elitismo è vera, cioè che la storia umana è un susseguirsi di élite che, in quanto tali, sono composte da gruppi sociali minoritari, la cosiddetta “legge della maggioranza” è una pia illusione. Bisognerebbe piuttosto parlare di volontà di una minoranza imposta a molti individui tramite determinati mezzi. Questi mezzi includono certamente l’industria dell’informazione, dell’intrattenimento, l’apparato della burocrazia e della Pubblica amministrazione.
Hans-Hermann Hoppe (1949), esponente di spicco del pensiero libertario, nella sua analisi della democrazia in un’opera intitolata – appunto – Democrazia: il dio che ha fallito (tradotto in italiano dai tipi di Liberilibri nel 2006), auspica una società veramente libera, composta di piccole e frammentate comunità locali fondate sul volontarismo, la tutela giuridica della proprietà privata e il ripudio di ogni forma di comunismo, fascismo e democrazia, ideologie che si trovano improvvisamente d’accordo quando lottano contro l’individuo. La classe politica democratica è per sua natura (non per sua intenzione: lo speriamo) fortemente ostile al progresso e al benessere degli individui. Questo è particolarmente evidente laddove la tutela giuridica della proprietà privata e la gestione privatistica dei problemi sociali sono minoritarie, in favore di una delega maggiore nelle mani dello Stato democratico (si veda quanto avviene, per esempio, nel Sud Italia). La causa di questa correlazione – statalismo democratico e immobilismo socioeconomico – è presto detta. Il regime democratico, a differenza di quanto avviene presso altre élite, è caratterizzato da una spiccata transitorietà dei burocrati e degli uomini di potere.
Gli imprenditori privati possiedono le proprie attività e risorse senza limiti di tempo prefissati (almeno che essi non decidano spontaneamente di effettuare una vendita) e, pertanto, essi si preoccupano non soltanto di utilizzare le risorse (cioè di sfruttarle in quanto creatrici di profitto), ma anche di curarle, per così dire. In altre parole, i privati cercano di conservare o stimolare nel tempo quelle condizioni ottimali delle risorse che permettano in futuro un loro uso il più possibile simile, se non migliore di quello presente. Nei regimi democratici, quello che comunemente è chiamato “bene pubblico” è in realtà un artificio giuridico per riferirsi a beni particolari assegnati con la forza a un certo numero di burocrati o politici (non dimentichiamolo infatti: la classe politica è composta da individui con nome e cognome, proprio come noi) che tuttavia hanno la pretesa di rappresentare tutti, ma di fatto essi sono i soli a beneficiare della proprietà e dell’uso di tali risorse (talvolta, soltanto dell’uso). A differenza però di quanto avviene nei regimi non democratici, dove burocrati e politici sono proprietari e/o sfruttatori di determinate attività e risorse sine die, oppure nelle imprese private, dove si verifica questo stesso rapporto con la proprietà, nei regimi democratici i proprietari dei “beni pubblici” sono transitori. Pertanto, questi tendono a non avere alcun interesse nella cura dei beni pubblici, che implica di necessità investimenti a lungo termine.
Sentiamo spesso dire che lo Stato pensa a lungo termine, mentre gli imprenditori privati sono interessati soltanto ai benefici economici immediati. La realtà confuta questo ridicolo slogan politico. Chiunque ha un’impresa sa benissimo che il capitalista deve pensare molto in grande per potersi trovare in vantaggio economico in futuro. Al contrario, nessun uomo politico si considera più che un proprietario transitorio, anzi forse neanche un proprietario. Eppure, ogni governante e ogni impiegato statale tende a spremere il più velocemente possibile la risorsa finché è nelle sue mani durante la propria carica, proprio perché non ha la sicurezza della proprietà. Il valore capitale dei beni pubblici rimangono, di fatto, senza proprietari. Se non si investe sul miglioramento della risorsa, segue che più beni sono assegnati in mano allo Stato, meno essi cresceranno in valore, meno la società nel complesso progredirà in ricchezza, e non solo. Novello Papafava così scrive in un suo fondamentale testo, Proprietari di sé e della natura (Liberilibri, 2004): “L’individuo privato, consapevole che la propria risorsa rimarrà sua nel tempo, è motivato a non farla deperire per mantenerne alto il valore monetario, anche nell’ipotesi di una vendita. Al contrario, l’uomo politico gestisce la risorsa con l’orizzonte breve del suo mandato perché consapevole che, alla fine, essa passerà di mano senza ricavarne nulla. Preoccupati per la rielezione, i governanti amministrano i beni in modo da favorire quei gruppi capaci di ricambiare con voti e appoggi, senza valutare i danni futuri delle loro azioni”.
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Aggiornato il 24 novembre 2021 alle ore 12:41